Porter e Stout: differenze e sottostili
Esistono confini blindati come fortezze e altri permeabili come colapasta, tanto in geopolitica quanto in ambito birrario. Alla prima categoria può appartenere infatti la demarcazione tra Bohemian e German Pils, stratificata da più di un secolo e mezzo di produzioni solidamente fondate su diverse tecniche brassicole (in primis la decozione multipla e l’uso della fiamma diretta, vanto dei boemi che i tedeschi hanno da tempo abbandonato nelle Pils) e materie prime locali che generano caratteristiche organolettiche ben distinte: nessun luppolo germanico ha l’inequivocabile fragranza leggermente pepata del Saaz boemo, senza contare che se in riva alla Moldava e all’Eger una piccola presenza di diacetile è tollerabile mentre il DMS è considerato un difetto esiziale, in terra teutonica vale l’esatto opposto.
Un confine piuttosto bucherellato pare essere invece quello tra Porter e Stout: innumerevoli sono infatti gli appassionati che cercano di capire la collocazione esatta di quel confine, perché i ripetuti assaggi di birre dichiarate dai loro produttori come appartenenti all’una o all’altra categoria li hanno lasciati decisamente disorientati. Se prescindiamo tanto dalle complesse vicende storiche che hanno condotto all’apparentamento dei due stili quanto dal ruolo giocato dall’invenzione del malto black patent, che soppiantando il brown malt per ragioni economiche cambiò in modo determinante il profilo gustativo conducendo al declino della tipologia a Londra e al suo successo a Dublino, e ci soffermiamo al contrario solo sull’attualità, possiamo concludere con franchezza che si tratta di un confine ormai esistente solo sulla carta e quotidianamente contraddetto dalle sue incarnazioni ad opera dei birrifici di tutto il mondo.
Quali dunque le differenze? Semplificando al massimo la situazione, le Porter dovrebbero avere un carattere tostato e torrefatto di almeno un gradino di intensità inferiore a quello delle Stout, fermandosi pertanto a sentori di caffè d’orzo e cioccolato senza giungere al caffè espresso e alla liquirizia in tocchetti; anche la caratteristica astringenza a fine sorso e il lieve tocco acidulo donati dall’elevata presenza di malti scuri dovrebbero essere presenti nelle Stout ma assenti nelle Porter.
Questa è la teoria, la realtà degli assaggi ci dice però come non sia affatto infrequente trovare birrifici che interpretino in maniera differente la questione. In assenza di un disciplinare vincolante ciò è perfettamente lecito ma crea ovviamente una certa confusione nel consumatore meno esperto, senza contare tutti i sottostili e le declinazioni territoriali o sperimentali derivate a cascata da entrambe le categorie.
Proviamo a scendere nel dettaglio: il BJCP distingue le due tipologie base in primo luogo sul piano territoriale, definendo English le Porter e Irish le Stout, la Brewers Association si accoda per quanto concerne le Stout più note e diffuse, indicate come Classic Irish Style Dry Stout ma introduce un criterio cromatico di distinzione tra le Porter, parlando di Brown e Robust, e descrivendo il colore delle prime “da marrone scuro a molto scuro” e quello delle seconde “da marrone molto scuro a nero”, andando ad avvicinare, ma non a coincidere del tutto, con ciò che il BJCP definisce American Porter, descritte infatti come “da marrone a marrone molto scuro, possono avvicinarsi al colore nero”.
Le Robust Porter sono un’evoluzione dello stile nata nell’universo craft americano, quindi tra i due compendi non vi è apparentemente una contraddizione e possiamo dedurre che ciò che il BJCP definisce come English Porter sia analogo a ciò che la BA chiama Brown Porter: in entrambi i cataloghi di stili si legge infatti che sono caratteristici gli aromi e i sapori di toffee, di caramello, di biscotto e di cioccolato mentre dovrebbero essere assenti sentori di orzo fortemente tostato e malto intensamente torrefatto con il connesso tocco harsh. Il BJCP aggiunge però che una modica quantità di questi aromi può arricchire e completare un profilo gustativo incentrato sul cioccolato fondente: in tal modo a mio giudizio si stanno già aprendo le porte a un possibile “sconfinamento”. Curiosamente, nella sua precedente versione il BJCP incentrava la differenza tra Porter e Stout proprio sulla presenza nella prima di aromi di roasted malt e nella seconda di sentori di roasted barley, ovvero orzo tostato ma non maltato, caratteristica aggiunta effettuata in terra irlandese e motivata storicamente non solo dal contributo organolettico ma anche dalla possibilità di risparmiare in termini di tassazione, dal momento che ai tempi in cui l’Isola di Smeraldo era ancora interamente sottomessa al Regno Unito le imposte sulla produzione di birra (e di distillati: l’orzo non maltato è un caratteristico ingrediente anche dell’Irish Whisky) erano basate solo sulla quantità di cereale maltato impiegata. La nuova definizione, più elastica e più passibile di creare sovrapposizioni con il territorio delle Stout, è probabilmente dovuta alla constatazione che tra le birre sul mercato il confine è sempre più collocato nella testa del birraio che crea la ricetta. In entrambi i compendi si concorda poi sulla definizione del corpo, “da leggero a medio”, sulla possibile moderata presenza di esteri fruttati (ciliegia, prugna, frutti rossi e viola, in particolare), sull’assenza di diacetile e su un’intensità della luppolatura “da leggera a media”, con il BJCP che specifica anche l’aromaticità da luppolo desiderabile, ovvero floreale o terrosa, come da tradizione britannica. Venendo alle più diffuse tra le Stout, ovvero le Dry Stout di origini irlandesi, sono unanimemente definite come dominate dagli aromi di caffè e da una forte tostatura dai toni secchi che va bilanciata con una certa cremosità del corpo e un tocco di dolcezza maltata di impronta toffee. La Brewers Association basa molto la sua definizione sulla presenza del già citato roasted barley mentre il BJCP parla più genericamente di dark grains. Entrambi collocano corpo e luppolatura un gradino più su rispetto alle English/Brown Porter mentre gli esteri fruttati sono, al contrario, meno percepibili a causa della maggiore presenza di tostature e aromi di luppolo. La BA sostiene che una moderata acidità da malti scuri sia ammissibile ma non strettamente richiesta, il BJCP non fa invece cenno all’asprezza e cita solo l’ammissibilità di una lieve astringenza (che la BA chiama “secca amarezza da malti scuri”) mentre una forte harshness è ovviamente indesiderabile: le due sensazioni gustative e boccali sono in realtà molto diverse ed è curioso che nessuno dei due compendi lo specifichi dettagliatamente, perché se è vero che l’acidità è una delle possibili cause d’astringenza, l’esperienza insegna che una Stout può presentare una rilevante harshness a fine sorso con ricordi di brace o di cenere senza avere acidità. Passando ai sottostili derivati, scopriamo che ciò che la BA chiama Robust Porter non coincide del tutto con quel che il BJCP definisce American Porter, anche perché la Brewers Association prevede l’ulteriore categoria American Style Imperial Porter: se in tutti e tre i casi si parla di una maggiore struttura maltata rispetto alla Porter base ed entrambi i cataloghi concordano sulla presenza di una dolcezza da malti, con note di cioccolato e caramello, a bilanciare l’amarezza delle tosature, il BJCP si spinge ad ammettere un “leggero carattere torrefatto” con ricordi di caffè, dettaglio che fa pensare ancora una volta ad uno sconfinamento in zona Stout e che la BA non prevede come descrittore né per la Robust Porter né per la American Imperial Porter ricordando, al contrario, come non vi debbano essere aromi e sapori di orzo tostato non maltato in alcuno dei due sottostili. Per quanto concerne la luppolatura, inoltre, malgrado si parli in ambo i casi di un’amarezza da media ed elevata, l’aromaticità da luppoli è definita “da bassa a media” per le Robust e “da bassa a mediamente alta” per le American Imperial della BA e “da media ad elevata” per le American Porter del BJCP, che ammette il dry hopping e specifica i possibili sentori agrumati, floreali o resinosi dei luppoli impiegati.
Entrambi i compendi includono ovviamente le Baltic Porter, nate nell’Ottocento tra Polonia, Russia, Scandinavia e Repubbliche Baltiche ad imitazione delle storiche birre scure inglesi ma tradizionalmente brassate a bassa fermentazione e con una minore presenza di tostature e di amarezza rispetto alle originali britanniche compensata da un maggiore rilievo degli esteri fruttati, con sfumature di prugna, ciliegia e frutti a bacca.
La Brewers Association distingue poi le Smoked Porter mentre il BJCP annovera tra gli stili storici la Pre Prohibition Porter, una variante nata a Philadelphia ai tempi dei Padri Pellegrini, approvata dal presidente Washington (di cui pare fosse la birra preferita) e brassata con uso di succedanei come mais e melassa: le linee guida prevedono ovviamente una maggiore presenza delle tostature rispetto all’originale inglese e ammettono una modica quantità di DMS.
Ben più numerosa è la figliolanza delle Stout: i due cataloghi elencano all’unisono solo Sweet Stout (la BA le chiama Sweet or Cream Stout), Oatmeal Stout e American Stout per poi aprire un ventaglio di differenze. Mentre la Brewers Association individua infatti come ulteriori sottostili Export Style Stout, British Style Imperial Stout e American Style Imperial Stout, il BJCP risponde schierando Irish Extra Stout, Tropical Stout, Foreign Extra Stout e, infine, Imperial Stout, tutte identificate in un’unica categoria e collocate nella sezione American Porter and Stout: si tratta a mio avviso di uno dei più gravi e marchiani errori storici e concettuali di questa catalogazione (per approfondimenti si rimanda al numero 38 di FBM).
Prendendo in considerazione dapprima gli elementi comuni, le Sweet o Cream Stout sono caratterizzate da maggiore dolcezza e pienezza di corpo, anche a basso grado alcolico, dovute a minore attenuazione e conseguente ricchezza di zuccheri residui: un risultato che può essere raggiunto anche con l’uso del lattosio, zucchero non fermentescibile dai Saccharomyces Cerevisiae e che dunque rimane nella birra finita. Ad un assaggio alla cieca una Porter particolarmente morbida e non troppo attenuata o con uso di ingredienti speciali, può facilmente essere confusa con una Sweet Stout; allo stesso modo nelle Oatmeal Stout l’avena dona una maggiore cremosità e corposità che, mitigando le tostature più spinte, possono portare a una sovrapposizione con alcune interpretazioni delle Porter. Le American Stout, che ho imparato a conoscere davvero giudicandole in compagnia di colleghi statunitensi sia alla World Beer Cup che al Great American Beer Festival, vivono invece di un complesso e non facile equilibrio gustativo tra una schietta e intensa presenza di malti torrefatti (la BA ammette la presenza di asprezza e astringenza in modica quantità, il BJCP addirittura di sentori di carbone o fondi di caffè) e una ben percepibile luppolatura con le caratteristiche aromaticità agrumate e resinose tipiche delle varietà statunitensi. Il corpo dev’essere sufficientemente rotondo per reggere i due elementi gustativi potenzialmente confliggenti (un caffè con aggiunta di limone non è esattamente la bevanda più gradevole che si possa immaginare) e possedere la corretta quantità di zuccheri residui per evitare il vortice d’astringenza che potrebbe generarsi tra Scilla (i malti torrefatti) e Cariddi (l’intensa luppolatura).
Non sono quindi birre facili da gestire in fase produttiva ma i migliori esemplari sono veramente appaganti e di sicuro impatto, la sovrapposizione che si può in questo caso generare non è con le Porter ma con le Black IPA o Cascadian Dark Ale che dir si voglia, specie nelle interpretazioni italiane ed europee, in cui sentori tostati e torrefatti sono presenti in misura rilevante: le versioni statunitensi delle ossimoriche “IPA scure” prevedono infatti solitamente un massiccio utilizzo del cold steeping dei malti scuri e lasciano quasi tutto lo spazio alla freschezza dei luppoli, lasciando solo un’ombra di caffè d’orzo che potrebbe essere in molti casi non avvertita in un assaggio in cui sia preclusa la percezione del colore della birra.
In alcuni casi se si passa ad analizzare le divergenze, emerge in modo piuttosto chiaro come lo iato riguarda più la filosofia di fondo della catalogazione che il contenuto dei sottostili descritti. Le Export Style Stout della Brewers Association racchiudono infatti in unico luogo ciò che il BJCP differenzia tra Irish Extra Stout e Foreign Extra Stout. Nelle linee guida delle caratteristiche organolettiche si parla infatti all’unisono di ricchi e intensi sentori torrefatti, all’insegna del caffè espresso e del cioccolato fondente, contrappuntati da una dolcezza colorata di biscotto e vaniglia e sostenuti da un corpo da medio a pieno. Il discrimine in questo caso è solo il grado alcolico, con le Irish Extra individuate in un ristretto range di 5,5%-6,5% ABV mentre le Foreign Extra spaziano dal 6,3% all’8,0%, coerentemente, la BA prevede per le sue Export Style l’intera “forchetta” delle due sottocategorie del BJCP: da 5,6% a 8,0%. Nelle note storiche con cui completa ogni descrizione di stile o sottostile, il BJCP spiega come le Foreign Extra fossero birre destinate all’esportazione e, malgrado più luppolate per aumentarne la conservabilità, avessero quasi sempre la stessa OG delle Extra Stout “domestiche” ma un più elevato grado alcolico a causa del lavoro dei Brettanomiceti, che continuavano a fermentare nei cask durante il lungo viaggio verso l’Africa, i Caraibi o l’Asia. A questo punto si potrebbe avanzare una possibile critica circa l’opportunità di ritagliare un sottostile pur non sussistendo più l’elemento caratterizzante storicamente individuato: nell’attuale definizione del BJCP di Foreign Extra Stout non vi è traccia di possibili aromi e sapori donati dalla fermentazione con Brettanomiceti e non ho dubbi che in una competizione BJCP una birra iscritta in quella categoria e fermentata con dei Brett verrebbe squalificata. Chiudendo l’inciso, in questo caso il discrimine tra le due catalogazioni è dovuto, come già accennato, alle diverse finalità: la Styles Guidline della BA è infatti la base per le categorizzazioni della World Beer Cup e del Great American Beer Festival e quindi applica sovente il rasoio di Occam accorpando sottostili che non presentino enormi variazioni organolettiche, l’elenco degli stili del BJCP nella sua ultima versione, con l’aggiunta di dettagli anche storici che erano assenti nei precedenti release, tende invece a presentarsi al pubblico più come una sorta di Bignami degli stili birrari.
Tale dinamica è all’opera anche nella definizione delle Tropical Stout, presenti solo nel BJCP e descritte come una versione più forte e corposa delle Sweet Stout. Ovviamente più dolci e meno luppolate delle Foreign Extra e delle Imperial con le quali possono condividere il grado alcolico e alle quali la BA evidentemente le riconduce in modo implicito, la loro distinzione in un’apposita sottocategoria trae fondamento in alcuni esempi storici di Stout brassate in Estremo Oriente ad imitazione delle Foreign Extra britanniche ed irlandesi ma con l’aggiunta di fonti di zuccheri locali accanto al malto d’orzo e spesso fermentate con lievito Lager utilizzato ad alte temperature.
Andando a concludere con le Imperial Stout, la distinzione proposta dalla Brewers Association tra British e American Style mi pare, oltre che storicamente corretta, anche sensata sul piano organolettico dal momento che tra le due “scuole” sono ravvisabili significative differenze: a partire dal colore, che in alcuni esemplari tradizionali può essere non completamente nero, per proseguire con la luppolatura, ben più intensa e caratterizzante nelle versioni statunitensi, e finire con il grado alcolico, mediamente più alto nelle interpretazioni americane.
Lo stile, uno di quelli che maggiormente solleticano la fantasia dei beer geek, sta poi generando ulteriori ramificazioni con le odierne interpretazioni scandinave e baltiche, ancora più muscolari e aggressive di quelle a stelle e strisce, e con la moda delle Pastry Stout, ovvero Imperial Stout che richiamino aromi e sapori del mondo della pasticceria. Cioccolato, vaniglia, caffé, nocciole, cocco, fave di tonka, sciroppo d’acero, burro d’arachidi e molto altro trovano così spazio come ingredienti speciali di queste produzioni (per approfondimenti si rimanda al numero 41 di FBM). Nei migliori esemplari si può trovare un attento e non facile lavoro (basti pensare al rischio insito in ingredienti ricchi di lipidi e oli essenziali come il cocco: il pericolo di azzerare la schiuma o, peggio, avere aromi da lozione abbronzante è sempre dietro l’angolo) sugli ingredienti e la ricetta per creare le suggestioni desiderate, in altri si assiste a un disinvolto uso di aromi artificiali da industria dolciaria e fa sorridere vedere consumatori paladini dell’artigianalità che accettano o addirittura sostengono questa modalità di lavoro.
Da ultimo, è doveroso spendere qualche parole sulle ibridazioni tra l’universo tostato delle Stout e quello belga dei lieviti altamente caratterizzanti. Abbiamo esempi illustri sul Vecchio Continente, come la Stout di De Dolle e la Black Albert di De Struise con tutte le sue molteplici derivazioni, e molte giovani produzioni d’Oltreoceano che rappresentano le notevoli potenzialità offerte da questo connubio a chi lo sappia maneggiare con cura. La Brewers Association individua uno stile, presente come categoria alla World Beer Cup e al Great American Beer Festival, denominata Dark American Belgo Style Ale, che ha una curiosa natura bifronte, dal momento che comprende birre scure in stile belga caratterizzate da un’aromatizzazione con luppoli americani oppure esemplari di stili non belgi (quindi anche, o soprattutto, Stout e derivati) contraddistinti da una ricchezza di esteri e sentori fermentativi derivati da ceppi di lieviti belgi.