India Pale Lager: storia e caratteristiche

Nonostante la crescente diffusione le IPL non hanno ancora una definizione di stile, né a livello formale, che informale. Non esiste infatti come stile riconosciuto nelle linee guida del BJCP (l’organismo che detta i parametri degli stili nei concorsi internazionali), alcuni dei maggiori siti di rating non riconoscono l’acronimo e anche nel mondo brassicolo sono in molti a storcere il naso. L’unica cosa che è abbastanza certa è che le IPL (a volte chiamate anche American Pale Lager) è che debbano essere birre a bassa fermentazione, ben luppolate e con dry hopping come le cugine IPA, ma che esulino dalla categoria pilsner anche come scelta di luppoli per evitare sovrapposizioni (in questo senso non sorprende che il valore minimo di amaro più accettato sia 45 IBU, il massimo per una pilsner secondo il BJCP). A variare in maniera spesso consistente è la base maltata di questo tipo di birre, sia nella quantità che nella qualità.

Scorrendo velocemente la lista delle IPL prodotte infatti si nota un divario significativo sia nella gradazione alcolica, sia nel colore e negli aromi dati dal malto. A ben vedere infatti nel BJCP non esiste una categoria che inquadri perfettamente le lager luppolate americane, di nessuna gradazione, eccezion fatta per gli esempi industriali. Questa grande variabilità è stata spesso indicata come una delle caratteristiche maggiormente attrattive dal punto di vista produttivo: non avere una struttura troppo rigida di classificazione permette infatti al birraio di produrre una birra prediligendo maggiormente all’obiettivo finale senza troppe limitazioni. Ogni birraio può decidere se partire da una ricetta base di bassa o di alta, alcuni modificano le loro IPA, altri preferiscono luppolare helles bock o dunkel, per poi aggiungere abbondanti dosi di luppoli sia in amaro che, soprattutto in aroma.

Le IPL hanno anche molti detrattori. Le critiche più comuni riguardano proprio l’ampiezza dello stile e il suo carattere più o meno commerciale. Per quanto riguarda la prima è facile immaginare come, una volta individuati i limiti esterni dello stile si possa poi procedere ad una sua suddivisione interna, come lo è stato per le cugine IPA. La seconda critica invece merita di essere affrontata in maniera più articolata. Da una parte è innegabile che l’universo IPA e quanto gli ruota intorno siano tutt’ora il più grosso fenomeno commerciale in ambito brassicolo e che questo abbia portato ad alcuni casi incontrollati di luppolatura selvaggia, spesso fini a se stessi, ma capaci di attrarre l’attenzione del pubblico proprio per la presenza del famoso acronimo. D’altro canto però va sottolineato come il processo produttivo e il mercato stesso delle IPA sia cambiato. Da anni infatti sono tante i birrifici che utilizzano lieviti ad alta sempre più neutri per produrre le loro APA/IPA, proprio per massimizzare l’apporto del luppolo e nei casi meglio riusciti, il bilanciamento delle note maltate; contemporaneamente si è assistito ad un generale processo di “pulizia” dello stile, in alcuni casi attraverso una maturazione più lunghe e/o a basse temperature (fino a lagerizzazioni tipiche delle basse fermentazioni) o attraverso filtrazioni. In questo senso diventa totalmente comprensibile l’utilizzo di lieviti e tecniche proprie della bassa fermentazione per la produzione di birre con profili luppolati importanti che porteranno a massimizzare l’apporto dei malti e dei luppoli. A volte la differenza tra una APA/IPA prodotta con i metodi indicati sopra e una IPL può essere così tenue da indurre in errore anche i degustatori più esperti (famosa la querelle post Birra dell’Anno 2014 sulla Gaina del Lambrate vincente nella categoria delle APA ma, secondo molti addetti ai lavori, un fulgido esempio di IPL).

I prodromi dello stile sono rintracciabili in alcune birre ormai classiche della new wave americana, come la Lager di Brooklyn o la Boston Lager di Samuel Adams, birre a bassa fermentazione con luppolatura americana, anche se non particolarmente amare (per i giorni nostri). I primi avvistamenti dell’acronimo IPL si hanno già nel 2008 quando Coney Island Brewing Company (spin-off specializzato in produzioni non convenzionali del birrificio Shmalz, ora proprietà di Boston Beer Company) lo usò per la sua Sword Swallower. Da quel momento sono stati tanti i produttori americani a realizzare birre sotto questo acronimo, non da ultimo Boston Brewing, il più grande produttore craft americano; con la sua Samuel Adams Double Agent IPL.

 

Anche in Italia alcuni produttori hanno cominciato ad usare IPL per descrivere delle loro produzioni. A ben vedere la cosa non deve stupirci del tutto: nel nostro Paese infatti tantissimi produttori sin da tempi non sospetti usano dry hopping anche nella produzione di pilsner costruendo di fatto un precedente alle IPL (spesso si è usato il termine italian pilsner in riferimento a queste birre). In sostanza ci sembra che il termine IPL presenti una certa continuità con la storia recente del mondo craft raccogliendo in sé numerose tendenze in atto già da vari anni. Il riferimento alle IPA non sembra forzato poiché evoca caratteristiche di fatto presenti nella birra e non svia il consumatore, anzi sembra in un certo senso chiarificatore.

Tra le IPL italiane segnaliamo:

  • American Magut del Birrificio Lambrate
  • Amberground del Birrificio Argo
  • Elvo’s Presley del birrificio Elvo
  • Hopnotic di Opperbacco
  • GPL di No Tomorrow
  • Lucid Dream del Birrificio Italiano
  • Prodigy di Zapap
  • Marilyn del birrificio MC 77