Fermentazione spontanea: caratteristiche e stili

La fermentazione spontanea, rappresenta, tra le tecniche dalle quali discendono le varie macro-famiglie birrarie, quella che ha dato vita alle prime proto-birre prodotte da mano umana, probabilmente già 3 o 5mila anni prima di Cristo; e che ha accompagnato la storia della pinta fino all’avvento di una consapevole (e sistematicamente applicata) metodica di colture (più o meno) selezionate, ciò che segnerà l’avvento della stagione dominata dalle tecniche dell’alta fermentazione. Si tratta di un genere birrario ancestrale, una vera e propria scheggia vivente di archeologia brassicola; la cui tradizione si conservata nei secolo grazie all’attaccamento (che ha assunto un tratto identitario, connesso al senso di appartenenza da parte di una comunità al proprio territorio) sviluppatosi nei suoi confronti in un fazzoletto di territorio belga (500 chilometri quadri più o meno) situato a sud-ovest di Bruxelles e attraversato dal fiume Zenne: un distretto geografico noto con il nome di Payottenland. Qui le fermentazioni spontanee hanno assunto un preciso nome d’arte: Lambic (in francese) o Lambiek (in fiammingo); termine, da declinare al maschile (preceduto dall’articolo il), che potrebbe derivare dal latino lambere ovvero sorseggiare, anche se in realtà riferito soprattutto agli animali. Una seconda ipotesi rimanda alla voce alambic e si fonda sull’idea, circolata nell’Ottocento, secondo la quale le birre appartenenti a questa discendenza, estremamente acide, lo fossero in quanto preparate per distillazione, dunque utilizzando alambicchi. L’etimologia più verosimile sembra però quella che rimanda a un toponimo, Lembeek, villaggio (appunto nel Payottenland), noto fin dal Medioevo per la copiosa produzione di fermentazioni spontanee.

Fermentazioni che – venendo al nocciolo della questione: alle fondamentali peculiarità produttive e sensoriali, insomma – si sviluppano in modo appunto spontaneo, sotto l’azione non di ceppi selezionati e inoculati dal produttore in un tino chiuso, bensì di  microorganismi (batteri lattici, ad esempio) e lieviti selvatici (del genere Brettanomyces , comprendente specie quali il Bruxellensis, il Lambicus e il Claussenii) naturalmente presenti microecosistema locale e nelle cantine: i quali vengono lasciati depositarsi sulla superficie di un mosto (esso stesso assai particolare: contenente almeno il 30% di frumento crudo e, soprattutto, trattato con luppoli invecchiati, tali da assumere una curiosa nota di formaggio) trasferito in una vasca larga, bassa e completamente aperta (il coolship ) per poi essere trasferito in botti dove troverà l’abbraccio ulteriore di popolazioni microbiche ancora diverse, quali i batteri acetici.

La gestazione di un Lambic implica tempi assai lunghi (si tratta di un’articolata staffetta metabolica alla quale concorrono, come accennato, numerosissimi fermenti di varia natura): si può arrivare fino a 3 anni in fusto e a due di maturazione supplementare in bottiglia. Il carattere organolettico che ne discende è arcigno e mordace: con sensazioni che ricordano la muffa, il sudore, il cuoio, lo yogurt, il limone, l’aceto di mele, il formaggio (come detto), il rigurgito; il tutto accompagnato da un’acidità dannatamente spiccata.

Per ingentilire il temperamento del Lambic in purezza (Straight Lambic), ne vengono preparate versioni mitigate (in qualche modo: mica tanto, però…) quali la Gueuze, il Faro, le varianti con frutta (Kriek, Framboise e altre), per le specifiche delle quali rimandiamo ai link riportati in calce.

Da sottolineare infine  come, per rispetto al ruolo avuto dal Belgio nel proteggere e tenere in vita la pratica delle fermentazioni spontanee, queste ultime – in genere: dipende comunque dalla scelta del produttore – solo qui vengono etichettate con la dicitura di Lambic, mentre altrove (assai interessanti esperienze sono in atto da anni un po’ ovunque nel mondo, specialmente negli Stati Uniti e in Italia) si opta per qualifiche diverse, quali Sour o Wild Beers.