Fruit beer: stili e tendenze
Una mela al giorno toglie il medico di torno, si dice, ma chissà se il detto vale anche quando la mela finisce nei tini di un birrificio. Un tema quanto mai attuale quello delle birre alla frutta, visto il continuo fiorire sul territorio nazionale di produzioni che vedono come protagonisti i doni che alberi e arbusti ci offrono. Presi dalle mode finiamo per dimenticarci però, che la frutta nei tini c’è finita molte volte anche in passato. Per questo abbiamo pensato di proporre un sintetico excursus storico per ricordare una storia che ha un inizio che antecede le recenti IPA con mango e frutta esotica.
In questa carrellata non possiamo non partire dalle Fruit Lambic, da quelle versioni delle fermentazioni spontanee (orgoglio del Payottenland) per le quali si preveda, nel corso della lunga permanenza in botte, l’aggiunta di frutti – ovviamente interi e non trattati – onde ottenere un duplice obiettivo: imprimere, con l’innesco del fruttosio contenuto in quelle polpe, nuovo impulso al processo fermentativo; conseguire, attraverso la macerazione nella massa liquida della birra degli ingredienti “ospiti”, un profilo sensoriale che di essi rechi, con forza, l’impronta. Su questo fronte gli abbracci più autorevolmente attestati da consuetudini di antico costume sono quelli con le ciliegie (griotte), con i lamponi e con l’uva; incontri da cui derivano, rispettivamente, le tipologie denominate Kriek (celeberrime le interpretazioni di 3 Fonteinen), Framboise o Frambozen, a seconda che si opti per la dizione francese o fiamminga (citiamo, a titolo d’esempio, quella targata De Cam) e Druiven Lambic (come la Saint Lamvinus firmata da Cantillon, con acini di Merlot e Cabernet Franc). Il format di elaborazione collaudato nel corso dell’esperienza appena descritta ha dato poi luogo a diversi ulteriori “spin off”: tanti quante sono state le varietà di frutta alle quali tale modalità di brassaggio è stato applicato, rivelandosi in grado di offrire esiti organolettici di adeguato standard qualitativo. E così – parlando, sia chiaro, di tutto ciò che rimane al di fuori del perimetro dei “falsi lambic” (fermentati in acciaio, addizionati con edulcoranti, filtrati, pastorizzati, provvisti giusto da una pallida acidulità, privi delle rusticità delle esecuzioni autentiche) – la strada percorsa ha portato alla cooptazione, nel “giardino” delle varietà ammissibili al connubio con la fermentazione spontanea, di specie quali fragole e ribes nero (che troviamo, rispettivamente, nella Oudbeitje e nella Experimental Cassis di Hanssens), albicocche (nella Cantillon Fou’ Foune), prugne (nella Oude Quetsche di casa Tilquin).
Uno schema che può essere applicato anche in territorio Gose (tipologia che nella Blood Orange di Anderson Valley, in California, sposa appunto delle arance rosse); all’esplorazione delle possibilità offerte sondando l’ambito delle Flanders Ale: è su questo fronte che – nelle Fiandre Occidentali – troviamo una Flemish Red “al quadrato” come la Character Rouge di Rodenbach (in cui macerano ciliegie, lamponi e mirtilli rossi); e delle variazioni sul tema Oud Bruin come la Frambozenbier e la Kriekenbier, proposte dalla Brouwerij Van Honsebrouck a partire dall’etichetta-madre ovvero la Bacchus.
Ma la curvatura sour può intervenire anche su matrici tipologiche meno diffusamente percepite come strettamente appartenenti al mondo acido. Ad esempio maturando in botti (“abitate” da microorganismi atti a favorire le derive di cui stiamo parlando) prodotti quali Stout o Porter, non di rado in versione Imperial o Robust; per poi procedere all’ulteriore potenziamento con la frutta (si veda in tal senso la “Tart of Darkness with Cherries & Vanilla” di The Bruery, in California). Oppure la “fase uno” può contemplare un’acidificazione mediante la tecnica del “sour mash” (la parziale pre-fermentazione del mosto da parte di batteri lattici), seguita dall’incontro con la frutta. E ancora, l’aggiunta di frutta può intervenire su una birra resa “Wild” non in virtù di metodiche di vera e propria fermentazione spontanea, bensì mediante inoculo, intenzionale e controllato, di lieviti selvatici. Il binomio frutta e acidità è d’altra parte un classico e per sua natura, vien da dire. Pur senza addentrarci in specifiche tecnico-produttive che ci porterebbero a digressioni ampie e impegnative, è infatti evidente come l’utilizzo di frutta in forma intera, e sottratta a procedure di debatterizzazione, metta automaticamente all’opera le popolazioni di microorganismi residenti sulle parti esterne della frutta stessa. E se, eseguendo la “gettata” a fine bollitura, si ottengono effetti di sanitizzazione che generalmente mettono al riparo da sviluppi di tipo contaminativo, al contrario, spostando l’ingresso in scena in corrispondenza della fermentazione primaria (generalmente alla fine per non disperdere il patrimonio aromatico) oppure successivamente allo spurgo dei lieviti esausti, non c’è sostanzialmente modo di impedire ai ceppi autoctoni di attivare il proprio metabolismo.
Il registro cambia completamente nel caso in cui la frutta, preventivamente all’ingresso nell’iter di brassaggio, venga trattata in modo da disinnescare la propria microflora nativa. In tal senso la si può surgelare (il congelamento non è sufficiente per debellare le tenaci colonie cellulari) e quindi sterilizzarla in acqua bollente; oppure se ne possono ricavare succhi o estratti; o ancora, la si può ridurre in piccoli pezzi, per poi pastorizzarla esponendole per una ventina di minuti a temperatura tra i 68 e i 70 gradi. Una volta effettuato il trattamento che si preferisce, l’aggiunta può avvenire secondo modalità differenti.
Un ramo a sé stante della categoria appena tratteggiata è quello rappresentato dalle IPA alle quali, per rendere ancor più cannoneggianti i temi gustolfattivi (tipici dei luppoli previsti “da disciplinare”) degli agrumi, della frutta esotica e delle resine, si integri la ricetta con il supporto diretto delle varietà di frutta di volta in volta chiamate in causa. Ulteriore gemmazione di quest’ultimo indirizzo “a stelle e strisce” è quello corrispondente alle cosiddette Milkshake Ipa o Milkshake Apa: una tipologia “non ufficiale” (ma, nella pratica, piuttosto precisamente percepita) irrobustita con iniezioni di elementi che rendono trama visiva decisamente nebbiosa, se non torbida: frumento e avena in mashing, lattosio, purea di mele (ricche di opalescente pectina) e, dopo la fermentazione, frutta in succo.
La visione eurocentrica della cronologia planetaria, ci porta spesso a trascurare l’esistente o l’esistito in altri continenti. Un caso? Quello, nel Nord America precoloniale, di una tipologia pellerossa come la “Choc Beer”, così battezzata dai ricercatori in quanto consumata dai Choctaw, una tribù stanziata tra Oklahoma, California, Mississippi, Louisiana, Texas, Alabama. Peculiarità della preparazione, la cui tradizione si è estinta non così presto (lasciando tracce fino a tutto il Novecento) era l’impiego di una base fissa consistente in orzo, luppolo, zucchero e lievito; e di integrazioni alternabili, attingendo a una lista comprendente riso, mele, pesche, uva passa, tabacco e una bacca aromatica chiamata fishberry o indian berry.