Le birrerie storiche italiane

Sembrerà strano, ma prima del risorgimento che stiamo vivendo, prima del nostro Anno Zero, il 1996, esisteva una Nazione che poteva vantare molteplici centri produttivi in città come Torino, Firenze e Milano, tanto per citarne solo alcune. Un dato può aiutare a capire la dimensione del fenomeno: correva l’anno 1894 e un censimento birrario contava ben 151 unità produttive dislocate sul suolo del Bel Paese. Ma allora perché soltanto negli anni Trenta l’elenco si riduce ad una dozzina di nomi? A fine ‘800 l’Italia si presentava come un mercato birrario piuttosto appetibile in quanto vergine, dove lungimiranti imprenditori – soprattutto stranieri – fiutarono la possibilità di facili guadagni e investirono, a volte portando con sé oltre al denaro anche un determinato sapere produttivo. In breve tempo molti centri, soprattutto in quell’area settentrionale che per vicinanza all’influenza culturale teutonica e per condizioni climatiche risultavano più vocate, si dotarono di birrificio.

Ma già nei primi decenni del XX secolo le condizioni per fare impresa non erano affatto facili (un film già visto?). La tecnologia stava facendo la differenza per il successo di un birrificio: alcuni macchinari erano fondamentali per automatizzare ed incrementare la produzione e certe costose innovazioni cominciavano a fare la differenza (si pensi alla rivoluzionaria invenzione della refrigerazione). Si innescò insomma una lotta impari tra i colossi e le piccole birrerie a discapito ovviamente di quest’ultime, visto che i tempi non permettevano certo una differenziazione in termini qualitativi del prodotto, imponendo una battaglia solo sui prezzi. Già nel 1920, dopo la Grande Guerra, il numero delle birrerie nazionali scese a 58. Un dato però è rappresentativo di ciò che stava accadendo, quello sui volumi produttivi: le concentrazioni in atto comportavano una riduzione del numero delle birrerie esistenti ma, al contempo, un aumento dei volumi totali, che cresceva nel 1900 a 163.000 hl, nel 1910 598.000 hl, nel 1920 1.157.000 hl fino a raggiungere i 1.500.000 hl nel 1924. Le condizioni per una crescita sana del comparto birra non migliorarono durante il Ventennio: la necessità di importare dall’estero malto e luppolo escludeva infatti la birra da quel paniere di prodotti 100% italiani che, in regime di autarchia, erano fortemente promossi dalla campagna fascista. Come se non bastasse il governo sembrava mostrare la carota al mondo vinicolo e il bastone a quello birrario.

Famosa, o meglio famigerata, è la legge Marescalchi del 1927 la quale, con l’apparente scopo di favorire l’agricoltura, imponeva ai birrai l’impiego di un 15% di riso nella produzione. Il colpo fu mortale: le tecnologie dell’epoca non erano pronte per questo cambiamento senza conseguenze in termini qualitativi. A questo quadro si devono aggiungere un aumento importante delle tassazione, con l’aggiunta di una imposta straordinaria di ben 40 lire per hl, un ingigantimento della burocrazia, che non rese certo le operazioni più semplici, oltre al divieto di vendita al dettaglio di bevande alcoliche di bassa gradazione per i “Vini e Oli” (categoria di esercizi molto diffusa all’epoca, che dopo la legge poterono commerciare solo casse confezionate). Gli effetti non tardano ad arrivare e i consumi scesero vorticosamente – si raggiunse la soglia minima di 1,64 litri annui pro-capite contro i 29 attuali –  per via dell’inevitabile aumento dei prezzi.

Nonostante sul finire degli anni ‘20 per favorire i consumi le principali birrerie diedero vita ad una campagna pubblicitaria senza precedenti e di sicuro impatto, con la grande crisi del ‘29 molte fabbriche abbassarono il bandone o ridussero fortemente l’organico. Sopravvissero alcuni marchi meglio strutturati, che si spartirono il mercato rilevando le piccole realtà in crisi. Sono gli anni delle acquisizioni da parte delle undici grandi birrerie che nei decenni successivi si impossesseranno del mercato italiano: Wuhrer, Zimmermann, Menabrea, Peroni, Forst, Moretti, Dreher, Poretti, Von Wunster, Itala Pilsen e Pedavana. Sopravvissero così i “pesci grandi” italiani, che nel tempo continuarono a mangiarsi tra loro in attesa, nel dopoguerra, di quelli ancora più grandi provenienti dall’estero (Heineken e SABMiller su tutti).