La birra in Norvegia
Con circa 200 imprese (alcune delle quali di natura totalmente industriale, come la Ringnes, maggiore compagnia del Paese, fondata nel 1877 e oggi in mano al gruppo Carlsberg), la Norvegia gode tuttavia di notevole considerazione a livello internazionale esclusivamente in virtù di una fioritura artigianale che ha mosso i propri primi passi attorno al 2004-2005. E in quegli esordi c’è uno zampino anche italiano, almeno in un certo senso. È infatti avendo prima fatto tappa da noi – nella capitale, prima come studente e poi come birraio, per la pionieristica Roma Brewing Company – che lo statunitense Mike Murphy (nato a Philadelphia) approda nel 2010 a Stavanger, assumendo il timone in sala cottura alla Lervig, “micro” fondata dopo lo spegnimento delle insegne della Tou Bryggeri, facente capo proprio alla poc’anzi citata Ringnes.
Da lì in poi, un crescendo continuo che ha portato Lervig ad assumere lo stato di autentica “griffe” contribuendo ad alimentare un movimento nel quale comunque i nomi importanti sono stati e sono svariati: tra essi, ad esempio, HaandBryggeriet (a Drammen) e 7 Fjell (a Bønes); mentre Nøgne Ø (a Grimstad), esso stesso protagonista del risveglio craft, ha visto nel 2013 acquistare una quota maggioritaria del proprio capitale sociale da parte del marchio commerciale Hansa Borg. La “cifra” di questo movimento? Una chiara predilezione per gli stili americani e britannici, in primis – ma non totalmente – quelli dotati di decise vigorie alcoliche (Apa, Ipa, Double Ipa; Baltic e Robust Porter, Imperial Stout e Barley Wine); e una forte attenzione al potenziale dei fermenti non convenzionali. Inoltre, alcuni produttori mostrano interesse per le peculiarità tipologiche più tradizionali e identitarie: come quella denominata Stjørdalsøl (dalla cittadina che ne è la culla, Stjørdal), un’affumicata ottenuta brassando cereale essiccato al fuoco di legna di ontano. Tra le referenze attestate, quella battente la bandiera della Some Farmer’s, appunto a Stjørdal.