La birra con metodo All Grain: ammostamento
Affrontando il mashing, ovvero l’ammostamento, ci buttiamo forse nell’argomento più serio e determinante per quello che riguarda la produzione di birra. È il modo con cui avviene quella sorta di magia, tramandata nella storia di popolo in popolo, che sta alla base dell’utilizzo dei cereali per la costruzione di un mosto che il lievito va poi a fermentare. Fermo restando che è il lievito a fare la birra e noi a fare il mosto, c’è da dire che questo mosto bisogna prepararlo come si deve. Innanzitutto conoscendo i meccanismi dell’ammostamento, poi i parametri che ne condizionano resa e qualità. Per partire dobbiamo ricordare perché usiamo i cereali maltati. Sono cereali che vengono fatti prima germinare e poi vengono disseccati, ritrovandosi al loro interno una serie di enzimi, amidi e proteine (oltre che fibre, composti azotati, ecc…). Questi componenti, uniti ad acqua e calore, sono tutto quello che occorre per ottenere da questi cereali un ricco mosto.
Enzimi
Per avviare l’ammostamento, dobbiamo anzitutto mettere insieme acqua e malti. Chiaramente non a casaccio, ma seguendo qualche criterio. Questo passaggio è chiamato mash in e in base alla composizione della ricetta e agli step che si vogliono compiere, può essere avviato a temperature differenti. Si parla di rest o step perchè è pratica comune nell’homebrewing ragionare seguendo un modello di ammostamento detto infusione multi-rest. Questo approccio nasce da un’esigenza pratica, la cui origine si evince facilmente osservando un qualsiasi grafico che illustra i range d’azione di temperatura e pH dei vari enzimi che coinvolti. Ognuno di questi ha un suo range di d’azione che sceglieremo a seconda di quale enzima preferiremo far lavorare.
L’ammostamento ci restituisce zuccheri semplici scomponendo gli amidi: un buon metodo per comprendere quando questi ultimi sono stati convertiti tutti in zuccheri è il test dello iodio. Si miscela su un piatto qualche goccia di comune tintura di iodio con del mosto: se la colorazione diventa viola/bluastra, siamo ancora in presenza di amidi residui, quindi occorre continuare l’ammostamento; se invece lo iodio si scioglie nel mosto senza scurirsi (qualche riflesso rosso chiaro può rimanere), tutti gli amidi sono stati convertiti in zuccheri: si può quindi terminare l’ammostamento.
Se l’ammostamento è terminato, per fissare la composizione degli zuccheri ottenuti attraverso i vari passaggi dell’ammostamento, si provvede a disattivare tutti gli enzimi alzando la temperatura al di sopra dei 77°C e mantenendola per circa 10 minuti. In questo modo, qualsiasi eventuale successivo calo di temperatura (per trasferimento del mosto in un altro tino o per generica perdita di calore) non influirà sulla composizione zuccherina del mosto per via della denaturazione operata sugli enzimi nella sosta a 77°C. C’è da aggiungere però un altro tassello. Ogni cereale, una volta macinato e immesso in acqua, per essere ammostato deve essere penetrato dalla stessa acqua. Questo passaggio è indispensabile per sciogliere in soluzione gli amidi che si trovano all’interno del chicco. In questo modo il cuore di ogni singolo frammento di chicco macinato subisce una reidratazione e una successiva gelatinizzazione. Quest’ultima fase consiste nella rottura dei legami che sostengono la struttura degli amidi, passaggio fondamentale prima di affidare agli enzimi il lavoro di disgregazione vero e proprio degli amidi. È un processo graduale che richiede tempo e calore in funzione del tipo di cereale: per alcuni cereali occorre più tempo rispetto all’orzo per poter rompere una serie di legami che gli amidi hanno con lipidi. In alcuni casi (come ad esempio con il grano non maltato) può essere necessario un ammostamento a parte, detto cereal mash, altrimenti la gelatinizzazione non potrebbe avvenire e gli amidi rimarrebbero fissati all’interno del chicco durante il mash inficiando l’efficienza complessiva di estrazione. Al termine della gelatinizzazione, il mosto risulta anche meno viscoso e meno torbido.
Cereale | Temperatura di gelatinizzazione |
Orzo | 58-65°C |
Mais | 72-78°C |
Riso | 70-85°C |
Sorgo | 69-75°C |
Frumento | 58-64°C |
Segale | 57-70°C |
Avena | 57-72°C |
Dopo i titoli di testa e i titoli di coda, parliamo del cuore dell’ammostamento, analizzando i singoli enzimi con le loro funzioni e gli intervalli di temperatura in cui lavorano. Non necessariamente bisogna passare attraverso tutte le temperature che attivano questi enzimi: gli intervalli andranno scelti con criterio a seconda della ricetta (come costruire una ricetta sarà meglio discusso successivamente).
Fitasi
È un enzima che processa la fitina, un composto fosfato che si trova nel malto. I fosfati liberati da questi enzimi reagiscono con calcio e magnesio contenuti nell’acqua rilasciando ioni idrogeno. Questo processo è anche responsabile dell’abbassamento del livello di pH (scala di misura della concentrazione di ioni idrogeno, cfr. capitolo dedicato). La fitasi (detta per l’appunto acid rest) era infatti una sosta molto praticata in antichità, perchè si era visto sperimentalmente che l’ammostamento e la conseguente birra ne traevano giovamento. Il range ottimale per questa fase è tra i 30 e i 52°C che andrebbe mantenuto per circa 10-30 minuti (a seconda dell’acidità che si vuole liberare). Tuttavia, nei tempi moderni, questo passaggio si compie raramente poiché vengono utilizzati i più comodi acidi alimentari (citrico, lattico, fosforico) o il pratico malto acidificato per abbassare il pH.
β-glucanasi
Saliamo con le temperature fino a incontrare gli enzimi che processano i beta glucani, polisaccaridi a catena molto lunga strutturalmente diversi dagli amidi (sono flessibili e più vicini strutturalmente alle fibre). Si trovano in grande quantità in tutti i cereali non maltati e sono di natura gommosa, perciò contribuiscono a rendere alquanto viscoso l’impasto di acqua e grani. Una buona parte dei beta glucani viene degradata durante la maltazione, per cui questi non costituiscono un problema nel caso in cui si utilizzano cereali maltati. Per attivare gli enzimi β-glucanasi occorre fare una sosta nel range 40-48°C: questo mette gli enzimi nelle giuste condizioni per rompere le catene dei β-glucani e conferire una maggior fluidità all’impasto. Lo step è necessario quando si usa più del 20% di un cereale non maltato, mentre è consigliata se la percentuale è tra il 10%-20% del totale.
Proteolitici
La sosta che permette di attivare questi enzimi è molto dibattuta. I motivi sono diversi e sono da ricercare nella natura di questi enzimi, nella loro funzione e nei malti che si utilizzano. In sostanza questi enzimi sono grado di lavorare lunghe catene di proteine insolubili convertendole in più piccole proteine maggiormente solubili. Un gruppo di questi enzimi (proteasi) riesce a spezzettarne i legami liberando nel mosto i costituenti delle proteine (amminoacidi), mentre gli altri (peptidasi) riescono a operare solo sui legami esterni delle catene liberando proteine a catena più corta (peptidi). Per comprendere meglio se e quanto occorra far lavorare questi enzimi dovremmo conoscere bene il tipo di malto e il grado di modificazione che ha subito durante il processo di maltazione. Quando si descrive un malto come ben modificato, si intende che la sua struttura ha un elevato grado di rottura delle pareti cellulari e della matrice di proteine e carboidrati dell’endosperma, ovvero la parte interna del chicco. Durante la maltazione vengono sempre attivati gli enzimi proteolitici che agiscono sulle strutture proteiche del chicco. Dire che un malto è ben modificato, quindi, equivale a dire che non sarà molto importante durante l’ammostamento degradare queste catene proteiche perché la maggior parte di esse sono state già rese solubili durante il processo di maltazione. Più un malto è modificato, meno proteine contiene, e viceversa. La modificazione del malto si misura attraverso un indice, detto indice Kolbach, che racchiude numericamente il rapporto fra proteine solubili e insolubili: valori inferiori al 36% indicano malti poco modificati; nel range 36%-40% mediamente modificati; tra 40%-48% sono ben modificati o altamente modificati. Tornando alla nostra birra, è bene ricordare che la ritenzione della schiuma è uno di quei fattori che vogliamo sia presente in molti stili, e la schiuma è formata (oltre che dalla anidride carbonica) essenzialmente da proteine. Quando usiamo malti molto modificati (solitamente malti inglesi), dunque, in teoria non ci sarebbe bisogno del protein rest, ovvero della pausa proteolitica (che in questi casi di solito si fa intorno ai 50°C). Spesso la si compie ugualmente, per scrupolo, pensando a eventuali lotti imperfetti di malti poco modificati o anche semplicemente per ottenere più proteine solubili e quindi una migliore schiuma e una minore torbidità. Ma una pausa molto lunga (oltre i 15 minuti) sarebbe addirittura dannosa in quanto tenderebbe a eliminare una parte di proteine che conferiscono corpo e struttura e contribuiscono alla ritenzione della schiuma. Al contrario, malti poco modificati (spesso malto d’orzo di provenienza tedesca, oppure orzo e altri cereali non maltati) necessitano di questo step e, solitamente, le stesse tradizioni birrarie si sono orientate proprio verso ricette e tempi che tengono conto di questo passaggio (al contrario di quelle della tradizione anglosassone). Gli enzimi peptidasi e proteasi lavorano entrambi bene nello stesso range di temperatura, che va da 35 a 67°C. La massima attività degli enzimi peptidasi avviene nella parte bassa del range, mentre per le proteasi è nella parte più alta. Per farli lavorare entrambi, si sceglie frequentemente di compiere il protein rest nel mezzo, a circa 50°C, ma chiaramente si può scegliere la temperatura più adeguata per favorire gli uni o gli altri. Tra l’altro, come ulteriore effetto benefico di questo step di temperatura, c’è la liberazione da parte di questi enzimi di azoto assimilabile, detto FAN (Free-Amino Nitrogen), nutrimento importantissimo per il lievito durante la fase di fermentazione.
β-amilasi
L’ultimo gruppo è quello degli enzimi diastatici, ovvero quegli enzimi che lavorano gli amidi per restituire zuccheri più semplici. Il processo di rottura delle molecole di amido in zuccheri più semplici si chiama idrolisi e richiede l’utilizzo di due atomi di idrogeno e uno di ossigeno, ovvero proprio quegli atomi che compongono l’acqua. Gli enzimi β-amilasi hanno un range di lavoro compreso tra 55-68°C e la loro opera sugli amidi è semplice: sono in grado di degradare le estremità delle catene, separando una molecola di maltosio alla volta dalla catena di amido. Degradano quindi gli amidi producendo maltosio, uno zucchero formato da due molecole di glucosio, ovvero un disaccaride. Si tratta di uno zucchero facilmente fermentabile, per cui far lavorare questo enzima equivale a favorire zuccheri che saranno poi facilmente fermentati dal lievito. Le temperature di lavoro in fase di ammostamento sono ovviamente fondamentali e condizionano il tipo di zuccheri che si andranno a solubilizzare nel mosto. Nei capitoli successivi verrà meglio esposto l’uso della temperatura e dei tempi di saccarificazione nella costruzione della ricetta.
α-amilasi
Questo tipo di enzimi, a dispetto del nome, si trova ad agire in contemporanea o addirittura dopo le beta amilasi, ovvero a temperature più elevate (considerato il fatto che durante l’ammostamento si procede sempre e solo nel verso dell’aumento della temperatura). Il loro intervallo di azione teorico è compreso tra i 64°C e i 76°C, ma il range effettivo in cui lavorano è tra i 67°C e i 72°C. Le α-amilasi aggrediscono i legami tra le molecole di glucosio, rompendo le catene di amidi in catene più corte e meno complesse, specialmente destrine. A loro volta, alcune catene di zuccheri complessi create dalle alfa amilasi possono essere disgregate dalle beta amilasi. Questo è possibile perchè questi due enzimi hanno una intersezione tra i loro range in cui sono entrambi attivi, ovvero intorno ai 67-68°C: spesso si conduce il mash proprio a questa temperatura per al fine di ottenere contemporaneamente zuccheri fermentabili e non fermentabili. Spostandosi in alto o in basso rispetto a questo valore medio si favorisce l’azione dell’’uno o dell’altro enzima, come sarà meglio descritto successivamente a proposito della formulazione di una ricetta.
Tipo di zucchero | molecole di glucosio | ordine di fermentazione | percentuale media nel mosto |
Glucosio | 1 | 1 | 8% |
Fruttosio | 1 | 2 | 2% |
Maltosio | 2 | 3 | 45% |
Maltotriosio | 3 | 4 | 14% |
Destrine | 4+ | non fermentabile | 25% |
Metodi di ammostamento
Finora si è detto tutto riguardo agli enzimi e al loro funzionamento, senza ancora approfondire i metodi per ammostare. Occorre, dunque, fare una carrellata specifica che riguarda i tre principali modi per ricavare un mosto fermentabile dal malto.
Infusione multi-rest
Il metodo a cui si è fatto riferimento fino a ora in questo capitolo è di fatto quello più usato attualmente. Il suo successo è determinato da diversi fattori: praticità, flessibilità, possibilità di utilizzare un numero di tini contenuto, intuitività. Sostanzialmente si tratta di mettere i grani in infusione in acqua calda (mash in), sostare in un determinato range di temperatura per far lavorare determinati enzimi, scaldare nuovamente il tino attraverso una fonte di calore, giungere a un successivo step, sostare nuovamente per un tempo adeguato e via dicendo fino a disattivare tutti gli enzimi (mash out). Gli step sono quelli descritti dai range di temperatura relativi ai singoli enzimi, perciò in base alla composizione dei grani che è stata scelta e alla ricetta che si ha in mente (avendo fissato obiettivi come attenuazione, densità finale ecc…) si sceglie un determinato step, una temperatura e un intervallo di tempo opportuno.
Infusione all’inglese
Un metodo alternativo alla classica infusione è quello detto all’inglese, proprio perché molto praticato in terra britannica. Invece della fonte di calore esterna come metodo per far innalzare la temperatura, si aggiunge altra acqua calda alla miscela. Ovviamente, questa acqua deve essere più calda della temperatura che si vuole raggiungere: è sufficiente una semplice proporzione tra quantità e temperatura per determinare la temperatura ideale dell’acqua utilizzata per l’aggiunta. È un metodo che comporta una maggiore capienza del tino di ammostamento, ma al tempo stesso facilita o evita la fase di filtrazione, avendo ormai impiegato una buona parte dell’acqua destinata per quella fase. In quanto al mosto, sottoponendolo per pochi secondi a temperature più elevate prima che la miscela giunga ad un nuovo equilibrio, pare si ottenga un gusto leggermente più pieno rispetto al metodo per infusione classico.
Decozione
Infine, uno dei metodi più affascinanti e forse più complessi è quello della decozione. Gli enzimi e gli step di riferimento sono sempre i medesimi, solo che in questo caso per far salire la temperatura si sfrutta un procedimento che favorisce le reazioni di caramellizzazione e di Maillard. Si porta una porzione di miscela (quindi grani e acqua) fino alla bollitura e la si lascia a quella temperatura per qualche minuto: l’intenso calore induce una caramellizazione degli zuccheri favorendo al tempo stesso anche la reazione di Maillard. Nella pratica, si può operare attraverso singola, doppia o anche tripla decozione, prendendo una frazione di miscela (approssimativamente corrispondente a un terzo), portandola a ebollizione e poi unendola nuovamente alla porzione rimasta a temperatura di step costante, innalzando così la temperatura per passare allo step successivo. Oltre a fenomeni di caramellizzazione, ci sono anche altri effetti positivi sulla quota che si estrapola dalla miscela: gli amidi si solubilizzano meglio, così come i beta glucani che quindi porranno ancor meno ostacolo alla filtrazione rendendo il mosto più fluido; inoltre c’è una maggiore liberazione di ossigeno nell’aria (e quindi minore ossidazione del mosto) per via delle alte temperature. Ultimo, ma non meno importante, si verifica un aumento l’efficienza complessiva. Il processo è spesso lungo e si ha bisogno di un tino aggiuntivo con relativa fonte di calore, ma i risultati possono anche sbalordire e rendere onore alle ore supplementari di lavoro impiegato. A causa dei malti poco modificati di tradizione tedesca, per la realizzazione di lager è uno dei metodi più consigliati per conferire una profondità maltata unica e caratteristica per questi stili.