Fare la birra in casa: il lievito
Tra gli ingredienti per produrre birra, il lievito è quello che ha la storia più curiosa. Sono passati poco più di due secoli da quando Louis Pasteur attribuì ufficialmente a questo microrganismo il merito di produrre la bevanda che inebriava già la mente degli uomini da migliaia e migliaia di anni. Correva l’anno 1857 quando il microbiologo francese isolò per la prima volta il lievito Saccharomyces Cerevisiae. Prima delle sue ricerche, si sapeva poco o nulla sul processo di fermentazione, sebbene venisse impiegato da migliaia di anni. Ricercatori e studiosi erano divisi: alcuni esponenti illustri del mondo scientifico affermavano con una certa sicumera che la fermentazione non fosse dovuta a un organismo vivente ma derivasse semplicemente da una successione di reazioni chimiche. Pasteur, nato come chimico ma poi divenuto microbiologo nel corso della sua carriera, dimostrò invece che il processo che trasforma gli zuccheri in alcol e anidride carbonica avviene grazie a un piccolissimo organismo vivente che appartiene alla famiglia dei funghi e che ama cibarsi di zucchero. Da qui il nome Saccharomyces, ovvero “fungo degli zuccheri”.
Come è possibile allora che la birra venisse prodotta già migliaia di anni prima della innovativa scoperta del microbiologo francese? I lieviti vivono nell’ambiente attorno a noi, da sempre: li troviamo sulla superficie esterna della frutta, sui fiori, sulla nostra pelle. Vengono trasportati dal vento e dagli insetti, sono in grado di addormentarsi per un lungo periodo senza morire, per poi risvegliarsi in presenza dei giusti nutrienti e moltiplicarsi velocemente. Prima della scoperta di Pasteur, la fermentazione partiva spontaneamente grazie ai lieviti (ma anche, come vedremo, ai batteri) presenti nell’ambiente. Si dice che le famiglie produttrici di birra si tramandassero una sorta di “mestolo magico”: questo, una volta immerso nel miscuglio di orzo, grano e acqua, era in grado di far partire la fermentazione grazie alla microflora di lieviti e batteri che aveva fatto del magico mestolo la propria casa. I lieviti si cibano degli zuccheri presenti nel mosto per moltiplicarsi e vivere. Producono principalmente alcol e anidride carbonica come prodotti di scarto della fermentazione, insieme ad altri composti che definiscono il profilo organolettico della birra finita. Dopo la scoperta di Pasteur, vennero portati avanti diversi studi che diedero il via a molteplici filoni di ricerca. Si è scoperto che esistono centinaia di microrganismi diversi in grado di fermentare gli zuccheri, divisi principalmente in due grandi famiglie: lieviti e batteri. In questo capitolo ci occuperemo principalmente dei lieviti e accenneremo solo in parte ai batteri. Questi ultimi vengono considerati per lo più agenti contaminanti per via della loro tendenza a produrre significative quantità di acidi e aromi poco gradevoli. Tuttavia, come vedremo, i batteri, quando lavorano in simbiosi con i lieviti, possono produrre birre molto interessanti e piacevoli sebbene a volte al di fuori dei canoni classici.
Tratti distintivi dei diversi ceppi di lievito
Il mondo dei lieviti si divide a sua volta in diverse categorie, ciascuna popolata da decine e decine di ceppi differenti; questi vengono classificati in base a specifiche caratteristiche che ne determinano il comportamento fermentativo e di conseguenza il profilo organolettico della birra prodotta. Ciascun lievito è caratterizzato da diversi parametri tecnici che lo rendono unico.
Attenuazione
Questo parametro indica la percentuale di zuccheri che il lievito riesce a metabolizzare rispetto al totale degli zuccheri presenti nel mosto prima della fermentazione. Il quantitativo residuo di zuccheri lasciato dal lievito andrà a caratterizzare il bilanciamento dolce/amaro della birra e in parte anche le sensazioni palatali (una maggiore quantità di zuccheri residui genera la percezione di un corpo più pieno). Il mosto è composto da diverse tipologie di zuccheri, più o meno complessi, non tutti digeribili dal lievito. Alcuni lieviti, come per esempio i ceppi saison, sono in grado di consumare in parte anche zuccheri a catena medio-lunga: saranno quindi caratterizzati da un’attenuazione maggiore e produrranno una birra più secca e con un minore residuo dolce. Altri, come i ceppi inglesi, non producono gli enzimi necessari per scindere e incamerare gli zuccheri complessi: avranno dunque una attenuazione minore e produrranno una birra con un residuo zuccherino maggiore. Il birraio, a seconda dell’idea di birra che ha in mente, potrà quindi scegliere il lievito che produce il livello di attenuazione desiderato. L’attenuazione non dipende solo dal lievito, ma anche dalla tipologia di zuccheri presenti nel mosto: un ammostamento condotto a temperatura più alta produce zuccheri meno fermentabili e limita l’attenuazione. I valori di attenuazione che troviamo nelle specifiche dei vari lieviti fanno riferimento a misure su un mosto standard. In genere si lavora con l’attenuazione “apparente”, così chiamata poiché fa riferimento a misure condotte sulla birra in presenza dell’alcol sviluppato dalla fermentazione stessa. L’attenuazione cosiddetta “reale” considera invece anche la densità dell’alcol disciolto e si calcola dividendo l’attenuazione apparente per 1.22. Non è raro registrare attenuazioni apparenti superiori al 100%, proprio per via dell’abbassamento di densità dovuto alla presenza dell’alcol.
Flocculazione
A fine fermentazione le cellule di lievito tendono ad avvicinarsi l’una all’altra precipitando sul fondo del fermentatore. Questa predisposizione a formare delle unità composte da gruppi di cellule viene chiamata capacità di flocculazione. Alcuni lieviti flocculano più velocemente formando dei blocchi particolarmente grandi che in poco tempo finiscono sul fondo del fermentatore, lasciando la birra piuttosto limpida. Altri, invece, rimangono in sospensione per tempi più lunghi. Il livello di flocculazione è un parametro qualitativo, viene indicato nelle schede tecniche dei lieviti come basso, medio o alto. I lieviti più flocculanti sono generalmente meno attenuanti mentre quelli meno flocculanti, passando un tempo maggiore in sospensione nella birra tra gli zuccheri residui, tendono ad attenuare di più.
Range di temperatura
Indica l’intervallo di temperatura ottimale per la fermentazione di ciascun ceppo di lievito. Questo non significa che il ceppo di lievito non possa fermentare sopra o sotto al range indicato, ma che all’interno di tale intervallo il processo di fermentazione è efficiente senza che venga prodotto un eccesso di composti che possono rovinare il profilo organolettico della birra. Tuttavia, è il birraio che con prove successive dovrà individuare la temperatura che produce il range aromatico desiderato. In genere, più alta è la temperatura più veloce è la fermentazione e maggiore la concentrazione (e di conseguenza l’intensità) dei composti aromatici prodotti dal lievito.
Tolleranza all’alcol
L’alcol viene prodotto dal lievito durante la fermentazione. Si tratta di una sostanza tossica per molti organismi, anche per il lievito stesso se presente in concentrazioni troppo alte. Alcuni teorizzano che il lievito abbia sviluppato nel tempo la capacità di produrre alcol proprio per limitare la proliferazione di altri microrganismi con cui andrebbe in competizione durante la fermentazione. L’evoluzione ha tuttavia reso alcuni ceppi di lievito più resistenti all’alcol rispetto ad altri. La tolleranza all’alcol viene indicata come il limite massimo di ABV (percentuale di alcol nella birra per unità di volume) oltre il quale la fermentazione inizia a rallentare sensibilmente per poi arrestarsi del tutto per via della concentrazione eccessiva di alcol nella birra.
Profilo aromatico
Il profilo aromatico di ciascun lievito è difficile da quantificare e definire, principalmente perché dipende molto da condizioni di fermentazione quali temperatura, cellule di lievito inoculate, nutrienti presenti nel mosto e molto altro. Nel capitolo dedicato agli approfondimenti sulla fermentazione analizzeremo nel dettaglio alcuni dei composti rilasciati durante la fermentazione. Questo ci permetterà di caratterizzare i profili organolettici di alcune macro famiglie di lieviti. Sulle schede tecniche vengono indicati i tratti principali del profilo organolettico di ciascun lievito senza indicazioni particolarmente precise o utili. Si trovano termini generici come fruttato, speziato o neutro. L’esperienza diretta riveste un ruolo fondamentale nell’individuazione del ceppo lievito e del profilo di fermentazione adatti per la birra che vogliamo produrre.
Alta e bassa fermentazione
I lieviti Saccharomyces si distinguono in due grandi famiglie:
– Saccharomyces Cerevisiae, anche noti come lieviti ale o “ad alta fermentazione”
– Saccharomyces Pastorianus (o Carlsbergensis) anche noti come lieviti lager o “a bassa fermentazione”.
Storicamente, la denominazione “alta fermentazione” si riferisce alla tendenza di questi lieviti a salire sulla superficie del mosto durante la fermentazione. Viceversa, i lieviti a bassa fermentazione preferiscono lavorare sul fondo del tino. Più praticamente, però, questa nomenclatura vene ormai associata alle temperature di fermentazione: mentre entrambe le famiglie di lieviti possono fermentare tranquillamente fino a temperature di 30°C, i lieviti ad alta tendono a produrre il profilo aromatico migliore quando vengono fatti lavorare intorno ai 20°C, mentre per i lieviti a bassa fermentazione si preferiscono temperature di lavoro intorno ai 10°C. Molti lieviti ale entrano in stato dormiente e smettono di fermentare quando la temperatura scende sotto i 10°C, mentre quelli lager possono continuare a fermentare, seppure molto lentamente, anche al di sotto dei 5°C.
Lavorando a temperature più elevate, i lieviti ale fermentano abbastanza velocemente producendo una maggiore quantità di composti aromatici. Ne risulta un profilo organolettico della birra caratterizzato da varie combinazioni di aromi fruttati e speziati, per alcuni ceppi anche molto evidente (si pensi al mondo delle birre belghe). Di contro, i lieviti lager, lavorando a temperature modeste, fermentano più lentamente rilasciando una concentrazione minore di composti aromatici. Questo rende il profilo organolettico delle birre a bassa fermentazione piuttosto neutro e lascia ampio spazio agli aromi degli altri ingredienti come malto e luppolo. La temperatura più bassa tiene a freno la proliferazione dei microrganismi contaminanti che potrebbero prendere il sopravvento sul lievito. Per questa ragione le birre a bassa fermentazione si diffusero a macchia d’olio a partire dal 1800: le basse temperature venivano in soccorso al birraio che all’epoca non disponeva di pratiche di sanitizzazione adeguate. Le fermentazioni condotte a bassa temperatura producevano birre più pulite poiché bloccavano l’azione di batteri e lieviti selvaggi mentre i lieviti a bassa fermentazione portavano avanti il loro lavoro indisturbati. Questi ceppi di lievito si diffusero dapprima nelle regioni con un clima che rendeva pratico mantenere tali temperature durante tutto il periodo di fermentazione. Il centro Europa, e in particolare la Baviera con le sue grotte, furono il principale centro di incubazione per questi nuovi ceppi di lievito. Dopo l’invenzione della refrigerazione, il passo dal sud della Germania al mondo intero fu breve.
Esistono centinaia di ceppi diversi di lieviti, ciascuno diverso dall’altro per caratteristiche tecniche (attenuazione, flocculazione) e per contributo aromatico al profilo organolettico della birra. La varietà è maggiore nella famiglia dei lieviti ad alta fermentazione, sia per l’intensità aromatica che sono in grado di produrre per via delle temperature di fermentazione più alte, sia per le mutazioni genetiche avvenute grazie alla vasta diffusione e al continuo riutilizzo di questi lieviti negli anni precedenti all’isolamento dei ceppi puri in laboratorio e alla diffusione dei lieviti a bassa fermentazione.
Lieviti selvaggi
Nella classificazione scientifica non esistono specie ben definite di lieviti che possono definirsi genericamente “selvaggi”. Il termine deriva dal senso comune e dall’utilizzo pratico: così come accade nel regno animale, anche nel caso dei lieviti viene definito selvaggio tutto ciò che non è stato “addomesticato” dall’uomo. Nella maggioranza dei prodotti brassicoli in commercio si utilizzano infatti lieviti appartenenti alle due grandi famiglie di Saccharomyces (Cerevisiae e Pastorianus) che da diverse centinaia di anni vengono propagate in laboratorio. Esistono tuttavia tantissime altre famiglie e ceppi di lievito non coltivati in laboratorio che possono finire nel mosto e fermentare gli zuccheri producendo, tra l’altro, alcol e anidride carbonica. Cosa che accadeva di frequente prima degli studi di Pasteur e della diffusione delle pratiche di sanitizzazione moderne. Queste garantiscono infatti l’eliminazione della quasi totalità dei microrganismi da fermentatori, tubi, o pompe che vengono in contatto con il mosto per lasciare il campo libero al ceppo che il birraio ha scelto di utilizzare per la fermentazione. Fu solo nel 1904, grazie al lavoro di Niels Hjelte Claussen presso i laboratori danesi della Carlsberg, che si scoprì l’esistenza di ceppi di lievito diversi dai Saccharomyces. Claussen stava studiando le birre inglesi passate in botte, incuriosito dal particolare range di aromi e dall’altissimo livello di attenuazione che caratterizzava queste birre. Scoprì che un particolare ceppo di lieviti, con caratteristiche fermentative diverse dai Saccharomyces, era responsabile delle particolari evoluzioni sia organolettiche che strutturali di queste birre prodotte in Inghilterra. Individuò così una nuova famiglia di lieviti a cui diede il nome di Brettanomyces (fungo inglese). In particolare, Claussen isolò dalle birre inglesi il ceppo che prese poi il suo nome: il Claussenii. I Brettanomyces, chiamati spesso semplicemente Brett, vengono considerati i lieviti selvaggi per eccellenza, anche se ormai molte delle varianti impiegate dai birrai sono coltivate in laboratorio e vengono inoculate nel mosto in modo selettivo.
La tassonomia dei Brett è amplissima è ancora in fase di definizione, ma alcuni ceppi sono stati classificati e vengono comunemente utilizzati nella produzione di birre cosiddette “funky”:
– Classuenii/Anomalus: è il ceppo isolato da Claussen tipico delle old ale inglesi. Presenta aroma di cuoio ma soprattutto fruttato (frutta rossa, ananas)
– Bruxellensis: si dice sia il ceppo di Brett utilizzato per la rifermentazione in bottiglia della birra trappista Orval. Ha un aroma molto funky con sentori selvaggi ma anche venature fruttate.
– Lambicus: terroso, piuttosto funky ma anche fruttato (come tutti i Brett).
I Brett sono anche famosi per la loro resilienza: riescono infatti a sopravvivere a condizioni ambientali avverse per molto tempo, rimanendo silenti finché non trovano le giuste condizioni per riattivarsi e fermentare. Si tratta sempre di funghi che metabolizzano zucchero producendo alcol e anidride carbonica (CO2), ma a differenza dei Saccharomyces sono in grado di fermentare anche zuccheri complessi che i lieviti “comuni” non riescono a metabolizzare. Quando contaminano per errore il mosto tendono ad attivarsi lentamente (solitamente quando la birra è ormai finita in bottiglia) cibandosi degli zuccheri lasciati dal lievito primario: la CO2 così prodotta fa aumentare la pressione all’interno delle bottiglie oltre la soglia di guardia, producendo l’effetto fontana nel migliore dei casi o addirittura bottiglie bomba.
I Brett producono solitamente una pellicola oleosa sulla superficie del mosto che intrappola la CO2 formando delle bolle bianche che creano sulla superficie del mosto paesaggi quasi lunari. I Brett producono un range aromatico molto particolare che ricorda, non a caso, sentori “selvaggi” come stallatico, cantina, muffa, pelle di salame ma sono anche in grado convertire alcuni acidi grassi saturi “puzzolenti” (come il caprilico che ricorda qualcosa di rancido) in esteri fruttati che virano verso l’aroma di banana, pera o addirittura ananas. Contrariamente a quanto si pensa, i Brett non producono grandi quantità di acido: possono rilasciare acido acetico in presenza di abbondante ossigeno, ma generalmente vengono utilizzati per arricchire il profilo aromatico della birra e non per generare acidità. Compito, questo, che viene lasciato a un’altra famiglia di microrganismi: i batteri.
Sempre più spesso i Brett vengono utilizzati come unico ceppo direttamente dalla fermentazione primaria (queste birre vengono chiamate 100% Brett). In questo caso, lavorando direttamente e in solitaria sugli zuccheri più semplici presenti nel mosto, molti Brett si comportano in modo del tutto simile ai classici ceppi Saccharomyces producendo in pochi giorni birre con aromi fruttati piuttosto delicati e solo un leggero tocco “funky” in sottofondo, senza alcuna produzione di pellicola.
Batteri
Se il mondo dei lieviti è ampio, quello dei batteri tende all’infinito. I batteri di principale interesse per il mondo della birra appartengono alle grandi famiglie dei Lattobacilli e dei Pediococchi. Vengono solitamente impiegati per la loro tendenza a produrre grandi quantità di acido (si pensi agli stili lambic, gueuze e berliner weisse) ma nella maggior parte degli stili vengono considerati come microrganismi contaminanti.