L’astringenza nella birra

A chi piacerebbe sorseggiare un boccale in cui, non appena deglutita la birra, il cavo orale venisse avvolto da una sensazione acidula come di nespola o da ruvidezze tanniche sulle gengive, come quelle di certi the o di alcuni grandi vini rossi bevuti troppo giovani? A nessuno ovviamente, eppure la valutazione dell’astringenza in una birra può passare in secondo piano al palato del bevitore meno attento: si sente che qualcosa non va, che la birra ha qualche pecca, ma spesso ci si concentra su problemi più macroscopici oppure sulla valutazione di quelle caratteristiche che sono proprie e peculiari al prodotto, relegando queste sensazioni spiacevoli ad aggettivi dequalificanti più generici.

Spesso si parla in maniera un po’ più specifica di un’acidità poco piacevole, termine che non è del tutto corretto. L’acidità è infatti una delle sensazioni base del senso del gusto (insieme a dolce, salato, amaro, umami e grasso) e come tale andrebbe distinta, valutata e descritta nelle sensazioni gustative vere e proprie, mentre l’astringenza è una caratteristica tipicamente tattile, cioè riguarda un senso differente e ha a che fare con la percezione e la reazione dei tessuti del cavo orale con la bevanda. Naturalmente queste sensazioni non sono percepite a comparti stagni ma si accavallano e sono spesso in relazione di causa-effetto fra di loro. Una buona acidità non è necessariamente molto astringente come una forte astringenza non passa necessariamente per l’acidità ma può derivare anche da altri fattori che apportano questa “ruvidezza”.

Abbiamo appena definito l’astringenza come sensazione tattile e a volere essere precisini neppure questo è del tutto corretto. La descrizione di sensazioni tattili dovrebbe passare per aggettivi come setosità o ruvidezza mentre l’astringenza, tecnicamente parlando, fa parte di quelle sensazioni gustative (insieme a piccantezza, metallico ed altre) che vengono dette trigeminali, vale a dire quelle che vengono percepite e trasmesse al cervello con impulsi elettrici dal nervo trigemino. È una distinzione che ha basi scientifiche indiscutibili, ma nessuno alzerà il dito contro di voi se definiste ruvida un’astringenza o ne parlaste in termini tattili e non trigeminali…

Limitarsi all’acidità nella descrizione dell’astringenza è incompleto e fuorviante: a mio parere l’aggettivo asprezza è più calzante, unito ad una sensazione poco piacevole di ruvidità sulle mucose. L’astringenza di per sé non è neppure un difetto in senso assoluto, sebbene difficilmente si possa citarla in senso positivo: a volte, per ingredienti o caratteristiche intrinseche del processo produttivo, è inevitabile e marchio di fabbrica di un determinato prodotto, si pensi a certe birre maturate lungamente in botte o a certe Imperial IPA prodotte con quantità improponibili di luppolo. Va quindi sempre valutata in relazione con le altre caratteristiche peculiari del prodotto: l’importante è che non sia mai protagonista assoluta e, quando presente, trovi spazio con garbo fra le altre peculiarità di una birra di carattere.

Eliminare o ridurre l’astringenza nel prodotto finito può rivelarsi un brutto grattacapo anche per un bravo birraio. Le cause, come le manifestazioni, infatti possono essere le più disparate e la soluzione richiedere lunghe indagini e parecchie prove (e anche nuovi investimenti a volte). Partendo dal principio, la prima causa può provenire dalla durezza e dall’alcalinità dell’acqua e quindi da un suo scorretto bilanciamento nei sali combinato con altri fattori durante la birrificazione. Le cose non sono affatto semplici: ad esempio un’acqua con molti carbonati usata insieme ad una quantità rilevante di luppolo può estrarre da questo sgradevoli note astringenti, ma d’altro canto anche una birra prodotta con tanti malti tostati può risultare acidula e astringente se l’acqua utilizzata non possedesse il giusto bilanciamento di carbonati. I solfati, che hanno la capacità di esaltare le luppolature, quando si esagera con le quantità o non si prendono gli accorgimenti opportuni in birrificio possono estrarre astringenza. Non a caso a Londra, le cui acque possedevano una buona quantità di carbonati, si portarono al successo planetario le scure Porter, le acque di Burton-Upon-Trent, ricche di solfati e di carbonati ma con un buon equilibrio fra durezza ed alcalinità, esaltarono le luppolate India Pale Ale e le acqua di Plzen, povere di sali minerali, sono l’ideale per realizzare le leggere ed equilibrate Bohemian Pilsner. Oggi ovviamente è possibile trattare opportunamente le acque in ogni parte del mondo a seconda dello stile che si vuole realizzare.

Un’altra fonte possibile di astringenza può essere, a fine ammostamento, un filtraggio delle trebbie troppo prolungato o effettuato con un’acqua dal pH o dalla temperatura troppo elevata. Questi fattori possono estrarre dai grani esausti polifenoli sgradevoli, ruvidi, amarognoli e aspri. Anche un uso cospicuo di luppoli può portare a questo problema senza i necessari accorgimenti e un corretto bilanciamento della ricetta: grandi quantità insieme a bolliture prolungate possono anche in questo caso estrarre polifenoli poco piacevoli. Lo stesso può avvenire con un dry hopping troppo prolungato. La varietà stessa di luppolo, nobile e meno nobile, può influire insieme alla sua forma di commercializzazione: nei pellets T90, quelli più diffusi sul mercato, non ci finisce solo il fiore della pianta, ma anche qualche ramo, per capirci. Anche fermentazioni spontanee, batteri e acidità, nonché passaggi in botte e tannini del legno possono dire loro riguardo all’astringenza. E altre cause minori possono risiedere nelle caratteristiche specifiche di ogni impianto di produzione. Anche stavolta, e qui come non mai, la sensibilità e la preparazione tecnica del birraio fanno la differenza.

Le cause dell’astringenza

  • Macinazione troppo fine dei cereali
  • Durezza e alcalinità dell’acqua non bilanciate
  • Luppolo in elevate quantità o estrazioni prolungate
  • Filtrazione e sparging non corretti
  • Fermentazioni spontanee
  • Maturazioni in botte