Il birrificio Guinness
1759, è un anno storico per il mondo della birra. Arthur Guinness, trentaquatt’enne irlandese del Kildare, dopo i primi esperimenti birrari assieme al padre, acquista il birrificio di St James’s Gate a Dublino. Lo stabile, ormai in disuso dopo un periodo di attività, doveva valere veramente poco se Arthur riuscì a strapparlo per 45 sterline l’anno firmando un contratto con scadenza nel 10759!! Dieci anni più tardi, nonostante la concorrenza delle birre inglesi e le tasse imposte a quelle irlandesi, un battello partito da Dublino portò i primi sei barili e mezzo di Guinness in Inghilterra.
Anche se è bene ricordarlo agli inizi la Guinness era molto diversa dalla scura con la schiuma compatta che oggi amiamo bere, essendo ispirata alle tradizionali più chiare ale anglosassoni. Solo qualche anno dopo il suo interesse però cadde su di un’altra tipologia che cominciava ad avere un certo seguito, specie fra gli scaricatori del porto di Londra e da cui sembra aver preso il nome: la porter (facchino in inglese). La scura prodotta dalla Guinness piaceva molto, a tal punto che nel 1799 venne interrotta la produzione delle altre tipologie. Due le interpretazioni proposte: una “Town Porter”, diciamo classica, e una “Superior Porter”. Del 1801 è invece la prima cotta della West India Porter, ispirazione decenni dopo per la Foreign Extra Stout.
Arthur morì nel 1803 lasciando un’azienda in piena salute nelle mani di Arthur II, uno dei dieci figli. Negli anni successivi nacque la “Extra Superior Porter” e nel 1839 la produzione raggiunse gli 80.000 barili l’anno, oltre 130.000 ettolitri. Di quel periodo la “Single Stout”, single perché le botti erano marchiate con una X, la “Double Stout”, due X ovviamente, e ancora la “Triple Stout”, la versione da esportazione. La produzione della prima, ribattezzata “Plain Porter”, è proseguita fino al 1970, mentre la Double di allora è (più o meno) la Extra Stout che ancora si imbottiglia oggi. A livello economico la storia della famiglia Guinness è un’espansione pressoché continua. Nel 1862 è registrato il marchio GUINNESS®, negli anni ’80 la birreria di St James’s Gate è la più grande al mondo, quotata nel 1886 alla Stock Exchange, la Borsa di Londra di cui Edward (Guinness ovviamente) diventa presidente. Sul finire del secolo la produzione è di circa due milioni di ettolitri, un mare di stout che invade i mercati di tutto il mondo. Una quantità di barili che necessitò una deviazione della linea ferroviaria verso la fabbrica, per favorirne la partenza. Da quel periodo si ereditano anche simboli come l’arpa irlandese e la firma del fondatore Arthur, che ancora oggi si ritrovano in etichetta. E in effetti anche un’azzeccata strategia di immagine ha contribuito a rendere questa stout “la Stout”, la compagna di bancone apprezzata dai bevitori di tutto il mondo. Un modello per molti altri birrifici che si sono appassionati allo stile.
Il Novecento è il secolo dell’esplosione dello “stile Guinness”. Del 1929 è la prima campagna pubblicitaria disegnata da John Gilroy (e gli slogan “Guinness for Strenght e “My Goodness, My Guinness” con annessi animali..), seguita nel tempo dalla vendita di “qualsiasi cosa ti viene in mente” marchiata Guinness. Un fiume in piena per appassionati e collezionisti. Gli anni ’50 portarono una vera rivoluzione produttiva: la sostituzione dei tradizionali fusti in legno con nuovi di acciaio inox, definitiva dal 1963. I primi esperimenti iniziarono nel 1958, e l’anno successivo fece comparsa con la sua testa cremosa la Guinness Draught. Una buona dose di pubblicità aiutò a convincere anche i bevitori più tradizionalisti che la “nuova” birra, spinata da un unico fusto, era buona quanto la “vecchia”, miscelata al momento da fusti differenti. La cosa funzionò e parecchi altri birrifici cominciarono a servire le loro stout spinando tramite azoto, fondamentale per rendere quasi ferma la birra e creare la classica schiuma compatta. L’Irlanda cominciava a stare un po’ stretta e nel giro di qualche anno inaugurarono succursali in Nigeria (1962), Malesia (1965), Camerun (1970) e Ghana (1971), seguiti da un ulteriore numero di licenze per produzioni locali. Dal 1992, con la morte degli ultimi membri della famigli a Guinness, per la prima volta nella sua storia la proprietà della birreria è interamente in mani esterne. Del 1997 è la fusione con la Grand Metropolitan, un affare da 24 miliardi sterline dell’epoca, che ha generato l’odierna Diaegeo, proprietaria di altri famosi marchi come Johnnie Walker, Pampero, vodka Smirnoff, Baileys, Gordon’s Gin.. pure l’amaro Unicum. Gli investimenti successivi hanno fatto della Guinness una delle birrerie tecnologicamente più avanzate, una macchina da guerra capace di soddisfare una sete mondiale da quasi 10 milioni di pinte al giorno. E pensare che non tutti vanno matti per le stout.
La produzione attuale riguarda Guinness Draught, una dry stout che, oltre alla spina, è venduta anche in bottiglia e in lattina: proprio la lattina fu lanciata nel 1988 con l’intuizione della pallina interna; la Guinness Extra Stout, dry stout anch’essa prodotta solo in bottiglia, che più ricorda il cos’era la Guinness prima dell’avvento del sistema azotato; la Guinness Foreign Extra Stout, 7,5% di gradazione, intensa e complessa, ideale per un dopo cena. Più alcune varianti vendute a livello locale: la Special Export Stout in Germania, Belgio ed Olanda, la Foreign Extra Stout Extra Smooth in Ghana, Camerun e Nigeria, o ancora la 250 Anniversary Stout, lanciata lo scorso 24 aprile in Australia, Stati Uniti e Singapore, proprio per il traguardo dei 250 anni. Un compleanno che è stato festeggiato anche con un super concerto di artisti irlandesi e un brindisi in contemporanea mondiale.
Che dire.. It’s always time for a Guinness!