Perché amiamo la birra: i profumi
Ripeto spesso che un corso di degustazione, di birra o di qualunque altro prodotto, è una preziosa occasione per riappropriarsi dell’olfatto e riaprire così una porta percettiva troppo spesso trascurata e dimenticata in una società che stimola all’eccesso il canale visivo a discapito di altri. Logica conseguenza è che, al primo impatto con la degustazione, saranno probabilmente le birre dai profumi più intensi e magari estremi a colpire l’attenzione e fungere da frecce di Eros: le American IPA con le loro variazioni, ad esempio, hanno avuto un ruolo decisivo nell’avvicinamento all’universo di molte persone, tra cui una non trascurabile quota di pubblico femminile, che non amavano i sentori tipici delle lager industriali che, per sineddoche, erano catalogati e definiti come “di birra”.
I profumi di mandarino, bergamotto, pompelmo rosa, arancia, vaniglia e lime donati dai luppoli americani di prima generazione e poi i sentori di ananas, papaya, mango, lychee, melone e resine apportati dalle varietali oggi più in voga sono stimolazioni sensoriali che travalicano decisamente i confini di ciò che la birra rappresentava fino a pochi anni fa e associano così la naturale fascinazione per la novità all’intrinseca attrattività di un bouquet così intrigante. Gli ingredienti speciali, che si tratti di frutta nelle birre sour o delle adjuncts più o meno folli che caratterizzano le pastry stout tanto di moda, svolgono sicuramente una funzione analoga, ma dal momento che non si tratta di profumi intrinsecamente legati alla birra ma, per l’appunto, di ingredienti aggiuntivi, non trovo rientrino appieno nel presente discorso.
Sono invece decisamente protagonisti della nostra trattazione gli esteri e i fenoli tipicamente sprigionati dai grandi classici belgi: i profumi di frutta matura a polpa gialla o disidratata, mandorla, marzapane o mallo di noce fino ai ricordi di dattero, prugna essiccata e fico secco che sopraggiungono in una Quadrupel dopo un’opportuna maturazione in cantina hanno segnato gli appassionati della prima generazione cambiando irreversibilmente il loro modo di bere. Del resto, l’evoluzione nel tempo mostrata dalle birre adeguate all’invecchiamento e la possibilità di stupirsi con spettacolari degustazioni verticali rappresentano fattori di fascinazione che hanno avvicinato alla nostra bevanda preferita anche numerosi appassionati di vino o distillati che ritenevano, erroneamente, che la verticale fosse uno sport precluso ai birrofili.
Esiste una specifica parafilia per chi ama gli off flavour? Probabilmente sì e mentre tutto questo è palese per chi si stappa una birra a fermentazione spontanea, ormai avvezzo e preparato al loro pedigree, di fronte a un esemplare senza difettosità oggettive riferite alla tipologia capita che qualche debuttante assoluto in campo degustativo se ne esca con espressioni tipo “muffa della cantina”, “pneumatico dopo una brusca frenata”, “sangue fresco”, “miniciccioli o petardi analoghi”, “binari del treno” e quant’altro.
A quel punto per lui la bevuta risulta ancora più emozionante, e si innesca quel processo di infatuazione tipico anche del un neofita del lambic e derivati che corre il rischio di innamorarsi all’istante di ciò che ha nel bicchiere proprio per il portato di aromi inusitati e, a prima vista, non del tutto desiderabili. Solitamente ciò avviene grazie a un, consapevole o meno, utilizzo della modalità di degustazione open mind: in tal modo l’off flavour, o, in termini caserecci, la puzzetta, si lega a un ricordo che ha una valenza sentimentale positiva per la persona (i cassetti chiusi della casa in montagna, il vino del contadino travasato dal nonno nelle damigiane…) e può fornire l’abbrivio a un viaggio senza ritorno nel mondo dei brettanomiceti, lactobacilli e pediococchi.
Con ormai venticinque anni di movimento artigianale nazionale alle spalle e la prima generazione di appassionati e degustatori che mostra le tempie irrimediabilmente imbiancate, si osserva quotidianamente come la lager renaissance che sta segnando il panorama italiano negli ultimi anni sia particolarmente gradita proprio ai birrofili sempre più diversamente giovani.
Perché? Tornando alla sineddoche iniziale, possiamo dire che se il bouquet di una lager industriale è, per un non appassionato, “profumo di birra”, i sentori semplici, sinceri e lineari di malti e luppoli sprigionati da una lager artigianale brassata a regola d’arte sono “profumo di birra fatta bene” e sono l’analogo, per il birrofilo di lungo corso, di ciò che è stata la visione delle spiagge di Itaca per Ulisse dopo tutte le sue avventure e peripezie.