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Luppolo e miele: insieme è meglio, parola di CrAk

Si fa presto a dire luppolo: ché di varietà ce ne sono a centinaia (specie se si contano le selvatiche); e i laboratori agronomici ne propongono di inedite a ritmo incessante. Ma si fa presto pure a dire luppolatura: in quanto le tecniche al processo di brassaggio sono ormai talmente tante da far fatica a contarle. Processi messi a punto con fantasia, battendo percorsi di ricerca che non conoscono soluzioni di continuità. Su questo fronte, raccontiamo volentieri della novità firmata, con tanto di brevetto registrato, da parte di una realtà artigianale italiana che ha fatto del tenace rampicante la propria icona, e che, specularmente, è divenuto icona per le schiere gli appassionati di quello che potremmo definire lo hoppy way of drinking.

Stiamo parlando dei veneti di CrAk (Campodarsego, Padova), i quali, dopo un anno buono di studi e test, hanno brevettato appunto una metodica di luppolatura il cui obiettivo è quello non solo massimizzare, ma anche ottimizzare (in termini di eleganza) la resa sensoriale di pellet e cryo. Il protocollo – la cui messa in atto ha implicato peraltro l’esecuzione, sulle attrezzature produttive, di modifiche non semplici, sotto il profilo impiantistico – è stato battezzato API Treatment; e fa leva su diverse leve: la prima (semplifichiamo) riguardante parametri di carattere termico, la seconda relativa all’impiego combinato di luppolo e miele.

Andiamo con ordine e partiamo dalle temperature. In questo senso – spiega Marco Ruffa, birraio del marchio euganeo – si è lavorato sul controllo dei valori (in diminuzione di qualche unità rispetto agli standard correnti) nelle fasi di late e whirlpool-hopping, in modo da migliorare i risultati in ordine al mantenimento dei contributi aromatici derivanti dagli olii essenziali, con particolare riferimento al loro contenuto in myrcene, composto tanto accattivante alle narici e prezioso, quanto delicato per la sua estrema volatilità.

Parallelamente, si è collaudata una pratica – nelle varie fasi di aggiunta, compreso il dry-hopping (quest’ultimo, nella fattispecie, durante la fermentazione) – la quale, come accennato, prevede il contestuale conferimento in tino (previa pastorizzazione) di precise dosi di miele, le quali funzionano, diciamo, da veicolatore a favore di quanto di meglio il luppolo possa dare, sotto l’intero profilo gustolfattivo. In questo caso, infatti, sotto la lente d’ingrandimento ci sono le cessioni, da parte del luppolo stesso (e si tratta di cessioni significative, sì, anche nelle aggiunte post caldaia), di sostanze tanniche segnate da una connotazione di tipo amaricante e, insieme, astringente. Ebbene, il miele, data la propria composizione chimica – zuccheri semplici (glucosio, fruttosio; saccarosio e altri oligosaccaridi) dal 66 all’83%; acqua dal 13 al 20%; gomme e destrine dall’1 al 5%; proteine attorno all’1%; sostanze minerali tra lo 0.05 e lo 0.3%; tracce di enzimi, acidi organici e vitamine – è in grado di apportare non solo materiale fermentabile (sebbene questo rappresenti la parte largamente maggioritaria); ma anche vettori di sensazioni dolci e felpate (proteine, gomme e destrine). sensazioni destinate, sembra, a compensare quel possibile, parziale, sovraccarico di parti gustativo-palatali dure al quale abbiamo appena fatto cenno.

Grazie a tale meccanismo di bilanciamento, si apre la possibilità di utilizzare luppolo in quantità massicce: a tutto vantaggio dell’esplosività aromatica e senza temere ricadute in termini di eventuale ruvidità della sorsata nel suo passaggio lungo il cavo orale. Ma non è finita: la quota di carboidrati semplici (in toto fermentabili, lo abbiamo appena ricordato) incentiva il processo fermentativo, consentendo una decisa attenuazione della birra e – come facilmente s’intuisce – una sua elevata fruibilità, a fronte di requisiti di marcata snellezza e, conseguentemente, di fluidità del consumo.

Insomma, diversi positivi risultati attraverso un’organica e oculata serie di manovre; le quali, d’altra parte, presentano il pegno di un costo d’esercizio non proprio leggerissimo. Ne discende che, al momento, CrAk sta applicando lo API treatment solo su determinate referenze della gamma, ovvero quelle che prevedono un double dry hopping, con quantitativi, in grammi/litro, di portata considerevole; anche se si è già all’opera affinché, sul medio periodo, si possa estendere il protocollo anche alla produzione delle West Cost Ipa (gli esiti dei rodaggi in corso sono già soddisfacenti).