FocusIn vetrinaTendenze

Lambic, c’est chic! La fermentazione spontanea oggi

Ognuno di noi ha una infanzia birraria, prima o poi. La mia è oramai sepolta da qualche catasta di anni e iniziano a volerci degli scavi archeologici per fare affiorare qualcosa. Uno dei ricordi più nitidi che conservo è la prima visita a Cantillon, correva l’anno 2001. La vasca di raffreddamento, le botti, quell’odore di cantina, tutto quel bagaglio di aneddoti ed emozioni che abbiamo imparato a conoscere, leggere e rileggere fino allo sfinimento negli ultimi anni, sono ancora vividi nella mia memoria di allora. Il ricordo più indelebile è legato a Jean Pierre Van Roy, eroe del Lambic tutto d’un pezzo e uomo d’altri tempi, così lontano da ciò che il Lambic è diventato in tempi recenti e così vicino al mondo dei nostri “vecchi” che sta scomparendo, tutto dedizione al lavoro, rispetto della propria cultura e delle proprie tradizioni, anche in maniera tenace. Il Lambic tradizionale a quell’epoca era una bevanda che, sostanzialmente, non voleva nessuno. Troppo acida, spigolosa, difficile. Lo ricordo ancora dietro al banchetto delle bottiglie e dei gadget che mi allungava le bottiglie che avevo acquistato e che avrei conservato con pazienza negli anni seguenti, mentre osservavo il prezzo del Lambic iniziare a salire per poi più tardi decollare, arrivando oggi a prezzi in alcuni casi stratosferici. All’epoca non esisteva ancora l’euro e per la Gueuze base ricordo sborsai l’equivalente di circa 7000 lire, che per i più giovani fanno 3 euro e mezzo per una bottiglia da 75 cl.

Che è successo dopo al Lambic? Come siamo potuti arrivare quindici anni dopo a prezzi che, sul mercato secondario americano, arrivano tranquillamente a 150 dollari alla bottiglia per gli imbottigliamenti di specialità stagionali? Partiamo dall’inizio. Il Lambic è una bevanda innegabilmente difficile. La sua natura arcaica, legata a un gusto acido e ruvido, così distante dai gusti moderni e legato alla presenza di caratteristiche olfattive che in qualsiasi manuale di degustazione sono definite come difetti inaccettabili, lo rendono una bevanda che solo una ristretta nicchia di appassionati è in grado di apprezzare. Certo, noi che il Lambic lo conosciamo bene sappiamo che il giusto equilibrio di queste note dissonanti possono regalare una sinfonia maestosa, ma è una conoscenza che richiede dedizione e una certa dose di fede iniziatica, oltre a una indubbia predisposizione. Pensate a certe forme di arte contemporanea: per molti la fruizione è inaccessibile e considerano certe opere degli obbrobri che una cerchia ristretta di iniziati considera sublimi. Per il Lambic vale più o meno la stessa cosa. Lo sapevamo bene all’epoca, in quei tempi carbonari in cui Kuaska come un messia diffondeva il verbo di quella bevanda da lui da sempre amata di un amore matto e disperatissimo. È grazie a lui se l’Italia divenne e ancora oggi resta un mercato di una certa importanza e prestigio per la vendita del Lambic. All’epoca le degustazioni erano un vero avvenimento, una specie di riunione di una loggia in cui un manipolo di massoni sedevano affiancati a qualche volto novizio che non di rado strabuzzava gli occhi al primo assaggio e poi non si faceva più vedere. I prezzi allora erano decisamente popolari, anche in Italia e al netto delle spese di trasporto e dei ricarichi intermedi. Non era certo una birra più costosa di tante altre. D’altronde sappiamo che la questione è di una semplicità disarmante: il prezzo lo fa il mercato e in un’epoca in cui la domanda di Lambic era tutt’altro che pressante il prezzo finale era quello che garantiva niente più che un modesto guadagno a tutti gli attori della filiera. Di sicuro quelli non erano i tempi in cui si facevano le file o si correva per un’edizione speciale di Lambic, anzi, di edizioni speciali ne esistevano proprio poche e quelle poche aspettavano placidamente il proprio acquirente sugli scaffali. Era l’epoca della lotta contro i Lambic finti e addolciti che convivevano con i pochi autentici, epoca che non è affatto tramontata oggi ma che allora permetteva a produttori poco ortodossi di trovare un canale commerciale più facile rispetto a quello del Lambic tradizionale, mettendone a repentaglio l’esistenza. D’altronde produrre Lambic non era affatto un affare redditizio ma piuttosto una missione e proporre quelle bibite zuccherate al sapore di Lambic era per taluni un modo per sostenersi con meno difficoltà commerciali. La storia del Lambic d’altronde è costellata di chiusure di fabbriche durante il secolo scorso ed è solo in anni recenti che si è assistito alla nascita di nuovi assemblatori e anche di produttori di birra a fermentazione spontanea fuori e dentro al Belgio. Non era certo immaginabile allora che quindici anni dopo sarebbero stati proprio molti fra i migliori birrifici americani a cimentarsi in questo tipo di produzione, tanto per capirci.

Le cose sono andate così per molti anni, certo il Lambic tradizionale ha lentamente conquistato nuovi spazi e nuovi apprezzamenti sulla scia dell’intero movimento della birra artigianale a livello mondiale, i prezzi hanno iniziato a salire per garantire una migliore redditività ai produttori, ma nulla che potesse avvicinarsi al delirio di questi ultimi anni. E poi che è successo? È difficile dire chi o cosa abbia innescato la spirale e quando sia scattata la molla del delirio collettivo. Forse una responsabilità indiretta l’ha avuta lo stesso Kuaska quando, circa dieci anni fa, accompagnò in un tour “acido” in Belgio i birrai di Dogfish Head, Russian River, Lost Abbey, Allagash e Avery. Alcuni di loro, già dediti alle produzioni acide, dopo quel viaggio iniziarono i loro primi esperimenti sulla birra a fermentazione spontanea influenzando sicuramente la cultura birraria americana. Quel che è certo è che improvvisamente, inaspettatamente, il Lambic ha cominciato a divenire un oggetto di culto. L’onda, imponente e fragorosa, è arrivata dagli USA, inaspettatamente per chi come me non seguiva molto le dinamiche dei consumatori appassionati di quel paese. Il Lambic ha iniziato a scarseggiare, anche qua in Italia dove di penuria non ce n’era mai stata e i prezzi ovviamente si sono impennati, ma è oltreoceano che si è assistito all’esplosione del delirio. È stato scioccante scoprire che bottiglie che io avevo acquistato ai tempi d’oro a 10 euro nei beer shop scambiavano sul mercato secondario a 120 dollari, anche 150 se vintage, e oltre per determinate bottiglie. Mercato secondario? Già, perché il Lambic che oggi arrivano negli Stati Uniti vanno letteralmente a ruba, tanto che è la norma la vendita di un numero contingentato di bottiglie a persona. Merce rara per i fortunati che ne entrano in possesso, un valore da scambiare con altre bottiglie prestigiose – la cosiddetta pratica del beer trading – oppure da monetizzare con la vendita diretta.

Come prima, la questione è semplice: ora che la domanda è aumentata mentre la produzione, per ragioni tecnico-produttive, non può crescere più di tanto, i prezzi non potevano fare altro che schizzare. E questo aumento ha finito per investire un po’ tutti: se il mercato più ricettivo è quello degli Stati Uniti, è ovvio che la maggior parte del Lambic finirà per essere spedito lì e ce ne sarà di meno per tutti gli altri, che finiranno loro stessi per pagare di più, fortunatamente senza arrivare – per il momento – agli eccessi americani. Anche la gamma produttiva di alcuni produttori e assemblatori, una volta granitica e immutabile, si è adeguata alle moderne dinamiche commerciali della birra artigianale, così non stupisce più nessuno vedere più volte l’anno edizioni speciali di Lambic con nuovi assemblaggi, botti inusuali o frutti e spezie “fuori ordinanza”. Le colpe degli aumenti, se di colpe possiamo parlare, hanno investito un po’ tutti: è chiaro che i produttori, dopo decenni a combattere per la sopravvivenza, visto il clamoroso successo recente, se proprio non vogliamo chiamarla moda, hanno adeguato i listini e i loro conti in banca. Allo stesso modo anche tutta la filiera, vista la domanda, ha avuto la possibilità di applicare ricarichi ben più pesanti che in passato su prezzi già di partenza più alti. Certo anche certi appassionati disposti a spendere cifre folli per una bottiglia non meritano molte lodi: senza di loro, i prezzi sarebbero a livelli più abbordabili. D’altro canto il Lambic tradizionale, per la sua peculiarità produttiva, non si presta a facili e immediati aumenti produttivi e per un consumatore che non se la sente di affrontare spese che per certe bottiglie iniziano a farsi importanti, ci sono tanti nuovi mercati pronti ad assorbire produzioni anche più ampie.

Questa dinamica non ha interessato allo stesso modo tutti quanti i produttori. Le due stelle sono coloro i quali, sostanzialmente, si sono sempre distinti per il livello qualitativo più alto, specialmente di alcune bottiglie: Cantillon e Drie Fonteinen. Quest’ultimo in particolare fu il primo probabilmente a fiutare che i tempi stavano radicalmente cambiando con la serie Armand’4, quattro Geuze obbiettivamente eccezionali che Debelder mise sul mercato dopo il famoso e discusso incidente dei termostati che provocò una perdita ingente della sua produzione anni fa. Le bottiglie uscirono a un prezzo palesemente più alto rispetto a quelli a cui si era abituati all’epoca, spiazzando un po’ tutti quanti, ma alla fine in Italia come altrove finirono per andare a ruba. Cantillon è probabilmente oggi il produttore di Lambic più di culto e anche lui, sebbene con più moderazione, ha progressivamente aggiornato i listini. Ogni edizione speciale messa in vendita sul sito on line del birrificio viene polverizzata in una manciata di secondi dagli acquisti degli americani e diviene merce rara sul mercato secondario. Altri produttori che negli anni passati non hanno saputo coltivare allo stesso modo il proprio prestigio e il proprio spirito di tradizione e autenticità non hanno avuto la stessa fortuna, sebbene la valorizzazione del Lambic tradizionale negli ultimi anni sia stata trasversale: Boon, Girardin, Oud Beersel, De Cam, Hanssens, per non citare quelli da sempre più smaccatamente commerciali e addolcitori, sono rimasti fuori dall’abnorme impennata di prezzi alimentata dagli americani. Nuovi blender e produttori di grande apprezzamento si sono affacciati negli ultimi anni, da Tilquin, la cui considerazione sul mercato degli appassionati è piuttosto alta, all’astro nascente e un po’ misterioso Bokkereyder. Ma nuovi produttori e assemblatori di birre a fermentazioni stanno spuntando un po’ in tutta Europa e negli Stati Uniti conquistando considerazione e spazio, non di rado con prodotti al livello del Pajottenland migliore.

Qualche considerazione in merito al mercato di oggi e alle sue follie va fatta. Ad esempio, sebbene tutti i produttori sappiano sfornare autentiche gemme, in generale e da sempre l’apprezzamento sulla qualità media di Cantillon e Drie Fontainen è stato superiore. Anche riguardo ai geek americani disposti a spendere cifre stratosferiche per una birra drogando il mercato, bisogna dire alcune cose: l’hype in questo circo gioca un ruolo fondamentale e se è vero che tutti vogliono una birra che tanti desiderano, è vero anche che non sempre la birra più ricercata vale i soldi che il mercato chiede, come è vero che ci sono bottiglie di valore senza hype, ma non per questo dobbiamo considerare tutti questi beer lover come degli stupidi che inseguono solo una moda. Di fatto, quasi sempre le birre più desiderate sono anche le birre migliori. Il problema vero è che il Lambic è rimasto quello che era, una bevanda di nicchia, ma questa nicchia è penetrata nel più grande e sofisticato mercato della birra artigianale al mondo, gli Stati Uniti, dove per numero di persone, cultura e dinamiche certi equilibri sono saltati. Quanto potrà durare tutto questo? Difficile dirlo. Il Lambic tradizionale è rimasta la bevanda difficile che era, forse la mano dei produttori negli ultimi anni l’ha reso meno spigoloso e più abbordabile, ma resta una bevanda abbastanza spiazzante per chi non ne sia avvezzo. Il gusto si è evoluto e la moda ha fatto il resto, ma il mercato è volubile ed è difficile prevedere se fra dieci anni questa corsa all’acido sarà proseguita o se si tornerà ad equilibri di mercato più ragionevoli e se l’attenzione degli appassionati non si sarà spostata verso altri tipi di birre, altri produttori o addirittura altre bevande. Quello che è certo è che la poesia di un tempo si è dissolta e per trovarne qualche brandello probabilmente bisogna tornare ancora, oggi come decenni fa, nei luoghi e dalle persone che lo producono, disposti magari a pagare dazio col portafoglio per le bottiglie più prestigiose ma senza escludere la possibilità, che è sempre dietro l’angolo, di trovare dentro a qualche bottiglia di un produttore meno sugli scudi o dentro a una brocca di Lambic appena spillato da qualche fustino, il sapore – e i prezzi – del tempo che fu. D’altronde a brontolare non si fa altro che diventare vecchi. Chi come me ha visto l’epoca in cui il Lambic era a rischio di estinzione, non può non gioire in qualche modo della nuova giovinezza di questa bevanda medioevale. Rassegnandosi a stappare qualche bottiglia in meno.

Un commento

  1. Complimenti, bell’articolo, molto equilibrato.
    Lucida analisi che, pur mostrando il sentimento di chi scrive, esamina con oggettività la situazione presente inquadrandola nel suo contesto.
    Con argomenti di questo tipo (tendenze attuali contro tradizione) e facile sfociare in esternazioni di mero tifo di parte.