L’importanza dell’acqua nella produzione di birra
Dall’alba dei tempi, quando l’uomo iniziò a produrre birra, l’acqua ha sempre costituito uno degli ingredienti principali della magica miscela. In termini quantitativi, costituisce mediamente oltre il 95% della birra che abbiamo nel bicchiere. Rispetto però al malto, al luppolo e agli aromi prodotti durante la fermentazione, il suo contributo allo spettro organolettico è molto sottile e sfumato. Tuttavia, l’acqua può avere effetti indiretti significativi sulla stabilità della birra e sulle sensazioni boccali. Effetti che nella storia hanno portato allo sviluppo di stili birrari geograficamente localizzati proprio in base all’acqua disponibile e al suo contenuto di sali minerali.
Prima dell’800, quando ancora non erano diffusi strumenti più o meno avanzati di misura, si procedeva per tentativi: il birraio sperimentava una ricetta e la valutava assaggiando la birra prodotta. Non era possibile misurare il grado di acidità raggiunto durante l’ammostamento, né valutare il contenuto degli zuccheri prima e dopo la fermentazione. Semplicemente la birra veniva bevuta e giudicata in base all’assaggio alla fine del processo produttivo. I birrai di un tempo hanno così scoperto che in certe città (Dublino, per esempio) le birre scure prodotte con l’acqua locale risultavano più morbide e piacevoli rispetto a quelle chiare, ma non sapevano bene perché. L’effetto dell’acqua sulla birra si espleta secondo due modalità ben distinte: alcuni sali minerali, come sodio, solfati e cloruri, alterano il profilo organolettico del prodotto finito; altri, invece, come bicarbonati, calcio e magnesio, influenzano alcune fasi del processo di produzione, in particolare quella di ammostamento. Su cloruri e solfati non c’è molto da dire: i primi tendono ad arrotondare il corpo accentuando le note maltate, mentre i secondi producono l’effetto opposto accentuando la componente amaricante. Le concentrazioni di questi sali nell’acqua utilizzata per produrre birra possono variare, ma in genere si cerca di mantenere i cloruri sotto i 150 mg/l e i solfati al di sotto dei 250 mg/l. È possibile sperimentare variando le due quantità, ma non aspettatevi un impatto sconvolgente sul gusto finale. Il sodio rende la birra sapida, quindi si cerca di mantenerlo sempre al di sotto dei 30 mg/l, a meno che non si stia producendo una gose. Molto più significativo è invece l’impatto di bicarbonati, calcio e magnesio sull’ammostamento, ovvero quella fase in cui gli amidi dei cereali (malto d’orzo, grano, etc…) vengono convertiti in zuccheri. Questa conversione avviene grazie all’azione di alcuni enzimi che scindono le catene di zuccheri complessi (amidi) in zuccheri semplici, digeribili dal lievito durante la fermentazione. L’acqua influenza l’azione di questi enzimi agendo sul pH, che rappresenta la concentrazione degli ioni idrogeno liberi in una miscela. Questi ioni, carichi positivamente, se presenti in concentrazioni non ottimali, tendono a deformare la struttura degli enzimi. Una deformazione eccessiva ne riduce l’efficacia, rendendo difficile (e oltre certi livelli impossibile) la conversione degli amidi in zuccheri.
Quali sono le variabili che influenzano il pH di ammostamento? Anzitutto va detto che il pH, una volta messi in ammollo i grani, tende a stabilizzarsi intorno a un range “ragionevole”, proprio per l’effetto acidificante dei cereali (specialmente di quelli molto tostati). Spesso si è portati a pensare che il pH di ammostamento dipenda direttamente dal pH dell’acqua utilizzata, ma non è così: quello che conta veramente è il livello di bicarbonati (HCO3), di calcio (Ca) e in piccola parte di Magnesio (Mg). Possiamo infatti vedere l’ammostamento come una lotta tra due forze opposte: da un lato abbiamo i fosfati naturalmente presenti nei cereali che, assieme a calcio e a magnesio, tendono a far scendere il pH rilasciando ioni idrogeno (azione acidificante); dall’altra, i bicarbonati ostacolano questa discesa interagendo con gli ioni idrogeno e annullandone l’effetto acidificante (azione bufferizzante). Fino a quando i bicarbonati non saranno esauriti dall’azione combinata di calcio, magnesio e fosfati dei malti, il pH dell’ammostamento non scenderà. Una volta neutralizzati tutti i bicarbonati, il pH inizierà a crollare abbastanza rapidamente. Quindi, poco importa se il pH dell’acqua di partenza è lontano dai valori ottimali: se il livello di bicarbonati è basso (orientativamente sotto i 100 mg/l) è molto probabile che l’azione acidificante dei cereali sarà sufficiente a portare il pH nel range ottimale (tra 5.2 e 5.6, misurato a temperatura ambiente). Altrimenti, possiamo aggiungere un acido alimentare (lattico, fosforico o citrico) per supportare l’azione acidificante. In ogni caso, quando il pH arriverà al range desiderato, avremo neutralizzato tutti i bicarbonati e raggiunto una nuova situazione di equilibrio nella miscela. Cosa accade invece se non riusciamo a portare il pH nel range desiderato? Anzitutto avremo una minore efficienza di conversione: diminuirà la quantità di zuccheri semplici che andranno in pasto al lievito a parità di cereali utilizzati. Gli amidi non convertiti potrebbero inoltre arrivare nel fermentatore e successivamente in bottiglia, dato che i lieviti comunemente utilizzati non sono in grado di fermentarli. Questi amidi possono rendere la birra torbida, specialmente quando viene raffreddata (chill-haze). Ma non finisce qui: gli amidi costituiscono anche un ghiotto alimento per i lieviti selvaggi (i temibili Brettanomyces) e per alcune tipologie di batteri: se consumati in bottiglia da questi organismi, possono dar luogo a sovracarbonazione (nel migliore dei casi) e a off-flavours di varia natura come acidità, note aromatiche di stalla, sudore, burroso (diacetile) o solvente (etil acetato). Bicarbonati e calcio non hanno quindi un impatto diretto sul profilo organolettico della birra, ma agiscono sul pH producendo effetti rilevabili anche al palato nel prodotto finito. E allora come mai si dice che acque ricche di bicarbonati rendono la percezione dell’amaro sgradevole? Come abbiamo detto, i bicarbonati vengono generalmente “neutralizzati” durante la fase di ammostamento, anche se il pH non arriva nel range ottimale (sotto pH 6, la loro concentrazione nella miscela è trascurabile). Come fanno quindi i bicarbonati a influenzare la percezione organolettica dell’amaro quando beviamo la birra? La ragione, ancora una volta, va individuata nel pH: se usiamo un’acqua ricca di bicarbonati per produrre una birra chiara (quindi senza beneficiare dell’azione acidificante dei malti tostati) è probabile che il pH in ammostamento si assesti su un valore più alto rispetto al range ottimale. Questo, oltre a una conversione inefficiente degli amidi in zuccheri semplici, produrrà un valore di pH più alto del dovuto in tutte le successive fasi della produzione (bollitura, fermentazione, birra finita). Un pH alto rende maggiormente solubili i tannini (sostanze contenute nei luppoli e nelle bucce del malto) che producono astringenza al palato. Inoltre, influenza molto la percezione dell’amaro: più il pH è alto, più l’amaro risulta sgradevole. Non dobbiamo quindi temere in assoluto le acque ricche di bicarbonati o pensare che possano essere utilizzate solo per produrre birre scure. Se riusciamo infatti a portare il pH di ammostamento nel range ottimale (utilizzando un acido alimentare o del malto acido) possiamo produrre qualsiasi stile di birra senza temere astringenza, amaro sgradevole, birre instabili in bottiglia e senza alterare l’efficienza di conversione degli amidi in zuccheri.