La birra in Germania
La Germania è considerata, da molti nel mondo, e molto probabilmente da tutti i Tedeschi, “semplicemente” come la patria della birra. Senza alcun dubbio, il Paese è il maggior produttore europeo, con un volume pari a oltre 95 milioni di ettolitri annui supera non solo la Russia (89 milioni), ma anche, e di gran lunga, il Regno Unito (45 milioni), la Polonia (40 milioni), la Spagna (33 milioni), il Belgio (18 milioni), oltre che ovviamente l’Italia (13 milioni). Al di là dei dati numerici, però, la Germania ha soprattutto esercitato, nell’intera storia brassicola mondiale, un’influenza enorme, addirittura decisiva. Se oggi la stragrande maggioranza delle birre prodotte al mondo assomiglia, o quantomeno s’ispira, all’idea stereotipata della birra chiara, limpida, leggera e amarognola, ciò è sicuramente merito (o colpa, dipende dai punti di vista) della cultura birraria tedesca. La storia della birra non sarebbe stata la stessa senza la fondamentale influenza della Germania e, più segnatamente, della Baviera. In tal senso va sicuramente ricordato il celebre Reinheitsgebot, il cosiddetto “Editto della purezza”, che – emanato nel 1516 dal duca Guglielmo IV – cambiò per sempre il mondo birrario. Promulgato in realtà per riservare l’uso di frumento e segale a favore dei panificatori, e non tanto per tutelare (almeno in una prima fase) la qualità della birra, la norma ne vincolava la produzione all’impiego tassativo ed esclusivo di orzo, luppolo e acqua. Non era menzionato il lievito, dato che nel XVI secolo la sua natura microscopica non era ovviamente ancora nota.
Nonostante questo, in realtà i birrai tedeschi avevano da tempo imparato a governare le fermentazioni e (pur non avendoli ancora “scoperti”) a gestire i fermenti stessi: tanto è vero che a Norimberga, già nel XIV secolo, esistevano regolamentazioni sull’utilizzo del lievito “che cade verso il basso” (quello che poi sarà chiamato a “bassa fermentazione”); e che documenti datati 1420 riportano il permesso di utilizzare lo stesso lievito da parte di un birraio bavarese. Ma è senz’altro la limitazione sulle altre materie prime che ha reso l’editto della purezza così rilevante nell’evoluzione della birra tedesca e non solo. Peraltro, se il Reinheitsgebot pone l’accento sui cereali, non va dimenticato come proprio dalla Germania sembra giunto l’impulso determinante all’entrata in scena anche dell’altro ingrediente citato nel provvedimento del 1516: il luppolo. Comparso all’orizzonte con gradualità, dopo secoli precedenti nel corso dei quali le funzioni di aromatizzazione e di conservazione della birra erano state affidate ai mix di spezie (i gruyt) cui si è già accennato parlando di Belgio, il rampicante dai fiori profumati e amaricanti visse il suo percorso di affermazione lungo un arco temporale che gli storici fanno partire convenzionalmente nel 736, dal monastero di Weihenstephan (a Freising, in Baviera: qui sono state rinvenute le prime attestazioni sull’uso esclusivo degli “odorosi coni”); e che si ritiene sia giunto a conclusione con l’epopea esistenziale e intellettuale di Santa Ildegarda (1098-1179), badessa al monastero di Rupertsberg a Bingen (Renania), conoscitrice della filosofia, della botanica e, appunto, considerata tra le figure cui si deve la consacrazione definitiva del luppolo in birrificazione. Insomma, al di là di ogni cliché e di ogni svilente immagine di matrice stereotipata, il quadrante geografico ruotante attorno all’influenza della cultura tedesca è stato davvero un grande e alacre laboratorio a cielo aperto, dal quale, alla storia e allo sviluppo dell’esperienza brassicola, sono arrivati contributi davvero fondamentali. Contributi alcuni dettagli dei quali ci accingiamo a vedere più da vicini passando velocemente il rassegna le principali tipologie brassicole riconducibili alla Germania.