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Il luppolo? E’ solo di Poretti! Il caso Luppolo Station vs Carlsberg

Una cosa è certa: l’industria birraria ha paura. Come l’elefante paventa il topolino, i colossi delle schiume pastorizzate (ben oltre il miliardo di ettolitri annui nel mondo) temono la minaccia della birra artigianale: anche in Italia, dove il settore vale circa un 3% del mercato, dove il consumo birra è assai moderato (30 litri pro capite su base annua). Eppure quegli spiccioli percentuali sono una quota in ascesa, e, soprattutto, a livello di leadership culturale e mediatica, il segmento craft ha ormai assunto un primato consolidato. E i grandi marchi che fanno? Da un lato comprano marchi micro (all’estero, soprattutto in USA dove il movimento è maturo); dall’altro lanciano prodotti e linee che ne imitano le sembianze (le così dette crafty); infine provano con offensive legali tese a ostacolare il comparto concorrente.

Ecco, giusto a metà strada tra questi due ultimi indirizzi strategici si colloca la vicenda di cui parliamo in questa circostanza. A Roma vicino alla stazione di Trastevere ha aperto da alcuni anni un ristopub dal nome evocativo e immediato, Luppolo Station, (teatro anche del nostro prossimo corso di degustazione a Roma), un luogo votato alla birra artigianale accompagnata da buona cucina. Ebbene, a fine novembre, i cinque titolari ricevono una comunicazione da parte dello studio Jacobacci & Partners di Milano (realtà leader nella difesa delle proprietà intellettuali), a nome – in qualità di soggetto assistito, nella fattispecie – della Carlsberg Italia. Sì proprio loro, la divisione tricolore della multinazionale titolare che possiede il brand italiano Poretti e che, proprio sotto queste insegne, ha lanciato l’innumerevole serie delle birre battezzate con il numero delle varietà di luppolo di cui si dichiara l’utilizzazione: 4 Luppoli, 5 Luppoli e via fino a 10 e (forse) oltre. Un chiaro esempio di etichette crafty (che si danno parvenze craft, ma che sono assolutamente macroindustriali), la cui capostipite è la 3 Luppoli.

birreria-artigianale-trastevere-roma-luppolo-station1Ma veniamo alla ragione della comunicazione fatta pervenire dal gigante danese: secondo gli scandinavi, il nome e il logo Luppolo Station indurrebbero arbitrarie associazioni appunto con le denominazioni Treluppoli e 3 Luppoli; tale assimilabilità potrebbe far pensare che i servizi di ristorazione erogati dal locale romano siano in qualche modo collegati a Carlsberg stessa; la quale ne subirebbe evidenti pregiudizi, rischiando di veder vanificati gli sforzi profusi per accreditare le denominazioni appena citate, Treluppoli e 3 Luppoli. Quindi? Quindi il mega-gruppo nordeuropeo (125 milioni di ettolitri stimati a fine 2015) invita il pub romano a cessare l’utilizzo del marchio Luppolo Station; a ritirarne la domanda di registrazione (depositata nel maggio scorso); impegnarsi per scritto a non adottare (né depositare) altri marchi o nomi imperniati attorno al lemma Il Luppolo. Pena, la valutazione delle opportune iniziative giuridiche.

3luppoliLasciando che sulle ragioni dell’intimazione ognuno si faccia la propria opinione, riportiamo la risposta dei diretti interessati, a nome dei quali, Diego Vitucci (uno dei cinque soci del ritrovo capitolino) si dice relativamente tranquillo alla luce della realtà delle cose e del confronto avuto con i consulenti legali. Nei contenuti – per stringere – la replica si articola in questi passaggi: punto primo, il marchio Luppolo Station (già regolarmente registrato) non è confondibile con quello Treluppoli o con quello 3 Luppoli, né sorto il profilo grafico, né sotto il profilo terminologico, dato che nell’uno compare appunto il vocabolo luppolo e negli altri il suo plurale. Punto secondo: il luppolo è semplicemente un ingrediente della birrificazione e reclamarne una pretesa di uso in esclusiva è quantomeno assai curioso, insostenibile sotto il profilo del diritto. Punto terzo (e qui l’ironia innerva la serietà del tema): l’eventuale associazione tra i prodotti Carlsberg e i servizi di somministrazione operati dal pub rappresenterebbe il fallimento della missione che quest’ultimo si è dato, avendo puntato rigorosamente sull’artigianale; e anzi, per scongiurare tutto ciò, lo Station si porrà come priorità assoluta quella di rappresentare alla clientela l’assoluta estraneità fra la propria attività e quella della Carlsberg stessa, con tutto il suo portfolio. Post Scriptum: se non ritirerete le vostre intimazioni (con tanto di scuse), valuteremo a nostra volta eventuali contromisure nelle sedi preposte.

La questione appare a prima vista assurda e incomprensibile, capace di accendere rabbia nell’appassionato e far partire la dietrologia più sfrenata: chissà quali intenti si nascondo dietro questa operazione? Si domanderanno in molti. Sì perché la vicenda da un punto di vista di diritto industriale andrebbe quantomeno approfondita: capire ad esempio in quali settori è stato registrato il marchio Luppolo Station, e se Carlsberg vuol rivendicare il marchio solo in ambito extra-birrario, giocando di difesa, ben consapevole che la parola Luppolo non può essere tutelata in una categoria strettamente brassicola. Certo che se così fosse bisognerebbe ricordare come nell’era internet certe azioni legali “Golia vs Davide” vanno ponderate accuratamente, vista la cattiva pubblicità virale che i social e i blog sono in grado di elargire.

Ne sa qualcosa Heineken che quest’estate tentò di indurre il birrificio sardo Lara a rinunciare a una sua etichetta, la Moretta, in quanto assonante con il brand Moretti, come noto in mano appunto agli olandesi. L’iniziativa si è risolta in un niente di fatto, avendo la multinazionale – dopo l’iniziale offensiva – ingranato la retromarcia.