Elogio del lievito secco nella produzione casalinga
Il lievito è la forza lavoro che dobbiamo aggiungere al mosto per ottenere la birra con le caratteristiche desiderate. Ne esistono di diverse tipologie – ceppi, in gergo – che assicurano sfumature organolettiche specifiche e adatte agli stili più disparati. Solitamente si trovano in commercio, in pacchetti o buste, sia in forma liquida che secca.
Di più semplice e rapido utilizzo, i lieviti secchi sono colture selezionate moltiplicate in enormi tank: a differenza di quelli liquidi subiscono un processo di liofilizzazione, che ne riduce il contenuto di acqua (anche fino all’8-10% circa) rimpiccio- lendo e disidratando le cellule in un’operazione che le “addormenta”, portandole a uno stato al limite della sopravvivenza.
I ceppi così selezionati vengono conservati in laboratorio, in colture in soluzione di glicerolo a -80°C. Ad ogni batch di propagazione il lievito viene identificato geneticamente e, appunto, riprodotto: a tale scopo è inoculato in recipienti via via sempre più grossi al cui interno, come mezzo nutritivo, è presente una melassa composta per il 50% circa di zuccheri fermentescibili a cui vengono aggiunte, per permettere la corretta moltiplicazione cellulare, sostanze nutritive e azotate, vitamine e minerali.
La massa così ottenuta è fatta moltiplicare – in maniera paragonabile agli starter attuati in birrificio per propagare i lieviti liquidi – passando da un recipiente a un altro, dal volume doppio, con aggiunta di melassa e sostanzenutritive e un afflusso costante di ossigeno. Quando la vasca inizia ad essere satura e la gemmazione cellulare rallenta si passa al condizionamento. Dopo un’ultima, minima, aggiunta di sostanze nutritive per permettere al lievito di sopravvivere, la massa viene separata dal liquido: si ottiene così una sostanza semisolida, pressata in panetti dalla consistenza simile al lievito fresco per il pane presente in tutti i supermercati. Fino a una ventina d’anni fa questa forma di confezionamento era molto diffusa per via della facilità di dosaggio e del costo limitato, caratteristiche comuni al lievito secco oggigiorno utilizzato. Per contro la durata di conservazione risultava pa- recchio limitata nel tempo (poche settimane, pena il degra- damento delle cellule) e nelle modalità (occorreva un mante- nimento in ambienti freddi, per bloccare il metabolismo del lievito attivo e il proliferare di eventuali muffe e agenti patogeni sulla superficie). Oggi la metodologia di conservazione più comune risiede nella già citata liofilizzazione, ossia la ri- mozione dell’acqua attraverso una prima fase di surgelamento del prodotto seguita da una seconda di sublimazione: grazie a un rapido riscaldamento in ambiente sottovuoto il ghiaccio presente nel lievito surgelato diventa subito vapore, abban- donando la massa.
È un processo più oneroso che però riduce al minimo il deterioramento del lievito stesso, messo “in pausa” in una sorta di stato di ibernazione che termina con la sua reidratazione. Il lievito secco è composto da circa 10-15 miliardi di cellule vive per ogni grammo, anche se la vitalità specifica varia a seconda del produttore. Rispetto a quelli liquidi ha alcuni vantaggi chiave, come il costo estre- mamente contenuto, la facilità di conservazione e di trasporto (non necessita di essere mantenuto ad un range di temperatura costante) e, soprattutto, non ha alcun bisogno di una propa- gazione preventiva, il cosiddetto starter. Durante la fermen- tazione la popolazione si assesta intorno ai 100-150 milioni di cellule attive per millilitro: questa è la densità massima oltre la quale non si può andare. Per esemplificare immaginiamo una stanza al cui interno riusciamo pian piano a far entrare delle persone: magari arriviamo a 20-30, ma alla fine più di quelle non ci staranno! Allo stesso modo nel fermentatore più di tanto il lievito non si riprodurrà. Una bustina standard da 12g svilupperà – 12g x 15*10^9 – 180 miliardi di cellule. In base ai limiti sopra citati, un litro di mosto ne potrà contenere al massimo – 1000 ml x 150*10^6 – 150 miliardi. Cosa deduciamo da questi due rapidi calcoli? Semplicemente che uno starter, nell’utilizzo dei lieviti secchi, non solo è inutile, ma addirittura dannoso! A una prima occhiata vediamo che circa 30 miliardi di cellule sarebbero di troppo, quindi morirebbero. Inoltre, anche se ignorassimo il surplus, avendo ormai raggiunto la saturazione lo scopo dello starter – cioè accrescere il più possibile il numero dei lieviti – sarebbe già stato espletato, rendendo inutile il tutto. Di fatto una bustina di lievito è più che sufficiente per fermentare dai 20 ai 40 litri di mosto fresco, se preventivamente ben idratato e seguito da una copiosa ossigenazione.
Ma la reidratazione è necessaria? Spesso si legge in rete, o ad- dirittura sulle note dei produttori (di lieviti), che è sufficiente aggiungerne direttamente nel fermentatore, sulla superficie del mosto. Altre fonti consigliano di reidratare in acqua, magari tiepida, prima di trasferire il lievito al fermentatore. Che fare? In teoria un corretto utilizzo del lievito liofilizzato prevede una reidratazione prima dell’inoculo nella massa del mosto: tale lievito si trova infatti in una condizione per la quale, in presenza di umidità, questa viene rapidamente assorbita – attraverso la parete cellulare e grazie alla permeabilità osmotica della cellula stessa – riportandolo ad essere attivo e “fermentante”. Con una corretta reidratazione il lievito recupera dunque appieno le proprie funzioni e, in poco tempo, torna utile e vitale. Se aggiunto immediatamente al mosto durante lo scambio osmotico, anziché assorbire solamente acqua finirà con l’inglobare anche sostanze non necessarie e tossiche in questa fase prematura, provocando la morte di molte cellule. Purtroppo i ceppi di lievito che ben sopportano il processo di liofilizzazione sono pochi rispetto a quelli disponibili in forma liquida, ma sicu- ramente uno adatto a ogni stile lo si può trovare. I lieviti secchi sono dunque più neutri, esaltano al meglio le caratte- ristiche del mosto, sono pratici ed economici: insomma, un vero must per ogni birraio moderno!
DRY IPA
Le ipa/apa americane a mio avviso sono tra le birre che meglio si prestano ad essere prodotte con lieviti secchi. Questa ricetta sfrutta la loro capacità di produrre una birra pulita e ben attenuata per esaltare le materie prime, il sottile biscottato e caramello che fa da velo a un aroma preponderante di luppolo citrico e aromatico.
RICETTA PER 20 LITRI
OG 1057 IBU 53
PALE ALE 5 kg
CRYSTAL 0.45 kg
SIMCOE 13AA% 60MIN 15g
CHINOOK 13AA% 30MIN 20g
SIMCOE 13AA% 15G 20G 15g
LIEVITO SAFALE US-05 5min
Ammostare a 65°C per 60 minuti ed effettuare il test di conversione dell’amido. Portare a 80°C ed effettuare lo sparge. Fare bollire per 70 minuti; dopo i primi 10, in cui si formerà parecchia schiuma, aggiungere i primi 15g di Simcoe, quindi procedere con le aggiunte successive a tempo debito. Questo permette una resa maggiore del luppolo, facendo sì che i primi coaguli proteici che formano la schiuma iniziale non inglobino parte degli iso-alfaacidi, diminuendo l’amaro finale della birra. Raffreddare e far fermentare a 20°C. Travasare, imbottigliare con 5-6 g/l e lasciar maturare. Il risultato è una birra da assaporare fin da giovane, dopo una ventina di giorni di bottiglia, momento in cui già sprigionerà al massimo la sua parte aromatica. Con l’invecchiamento la complessità aumenta, risvegliando le note aromatiche e zuccherine, equilibrando e rendendo la birra meno estrema.