Birra e uva: scopriamo le Italian Grape Ale
Per qualcuno sono il futuro della birra artigianale italiana, per altri già una moda fastidiosa, per altri ancora un esempio fulgido di birra territoriale o, viceversa, solo una tecnica per attirare l’attenzione del consumatore. Non è ancora passato un anno da quando il BJCP (Beer Judge Certification Program), la “bibbia degli stili”, ha inserito la nuova categoria delle Italian Grape Ale, che già sono nati articoli, polemiche, euforia produttiva e appuntamenti dedicati. Segno che esiste un fenomeno rilevante che solo il tempo ci dirà se e quanto di natura effimera. Noi stessi, in redazione, dopo aver contattato i birrifici attivi nel nostro Paese per dar vita a questo speciale, siamo stati sorpresi dalla mole di segnalazioni e birre pervenute. Pare assurdo, ma c’è stato bisogno di un ente straniero, lo statunitense BJCP, per infiammare il desiderio di birre con il mosto d’uva. Probabilmente tutto questo interesse tra Bacco e Cerere sarebbe emerso comunque, fatto sta che finiremo, purtroppo, per chiamarle con un acronimo straniero: IGA, dimostrando ancora una volta la nostra esterofilia congenita. A difesa della genesi di questo stile va ricordato che è all’estero che troviamo i primi incontri dell’uva con la birra. Infatti, anche se in Italia ha preso piede in maniera virale e possiamo ritenerci a tutti gli effetti il paese leader, l’idea di inserire uva, o suoi derivati, nel mosto è pratica che in epoca contemporanea trova sperimentatori in USA (Russian River e Dogfish Head per citarne di famosi) e ancor prima in Belgio, con le druivenbier ad esempio, una tradizione recuperata da produttori come il ben noto Cantillon (con la Vigneronne e successivamente con la Saint Lamvinus).
A ben vedere non ha molto senso cercare a tutti i costi di ingabbiarle in uno stile. Lo stesso BJCP, che rimanendo saggiamente in attesa di un’eventuale evoluzione della tipologia ha inserito la definizione in appendice (tra gli stili locali da confermare), aprendo il capitolo Italian Styles, ha trovato non poche difficoltà, nonostante una stesura affidata a membri italiani (particolarmente attivo Gianriccardo Corbo, presidente di MoBi), a delineare le maglie di questa “non tipologia” che ha come unico denominatore comune l’utilizzo dell’uva: il colore può passare dal dorato all’ebano, la gradazione alcolica dai 5 gradi può oltrepassare i 10, i profumi possono essere i più variegati anche se la presenza dell’uva nel bicchiere è richiesta.
Ma quanto i profumi derivanti dalla vigna devono sentirsi? Anche qui in molti si dividono, assieme ai produttori stessi. C’è chi preferisce lasciare la parola a Bacco e predisporre una ricetta che semplicemente accolga e lasci sprigionare i profumi dell’uva, correndo il rischio, secondo i detrattori, di fare un vino di bassa qualità, un prosecchino da discount; meglio, sarebbe lasciare che l’uva si integri e arricchisca la birra senza però trasmutarla. Oggettivamente entrambe le fazioni possono vantare esempi autorevoli di birre a sostegno della propria filosofia, e qualcuno già parla di sotto-categorie a seconda che la lancetta propenda per il vino (Beerwine?) o se, ad esempio, l’interpretazione manifesta un taglio sour, abbastanza in crescita nel genere. Sinceramente la questione mi annoia: non amo le categorie, né le maglie stilistiche soprattutto se fatte indossare ad una birra così difficile da inquadrare. Meglio allora affidarsi al risultato finale, al verdetto del bicchiere, e lasciar perdere quelle produzioni che affidandosi al caso cavalcheranno l’onda delle IGA, celebrando invece quelle bottiglie che con un atto creativo e coscienzioso sanno far convivere due mondi e una sola passione.
Le birre con il mosto d’uva italiane
La prima della lista è la BB10 del birrificio sardo Barley. Nicola Perra, il birraio, cresciuto in terra di vino pensò bene di aromatizzare la sua birra con un prodotto che fin da piccolo trovava nella sua dispensa, la sapa, mosto cotto che in Sardegna viene tradizionalmente utilizzato al posto dello zucchero soprattutto nella preparazione dei dolci delle feste. Nel 2006 Nicola creò così un capolavoro birrario come la BB10, birra prodotta con mosto cotto di Cannonau , seguita qualche anno più tardi dalla BBevò, con aggiunta in questo caso di sapa dell’autoctona uva Nasco. Ma si sa, i nostri birrai non hanno freni inibitori né un Reinheitsgebot da seguire passivamente: dove c’è cultura vinicola e passione birraria la contaminazione tra i due mondi è dietro l’angolo…
Ne sa qualcosa anche il piemontese Matteo Billia, che ormai quattro Pianeta Birra or sono (edizione 2008) presentava la sua Moscatus: birra esaltante, fresca, beverina, dai profumi fruttati (mela e pesca su tutti) e floreali. Peccato solo che la collaborazione con il birrificio Birra 1789 non durò a lungo e la Moscatus svanì come un bel sogno mattutino.
Un altro homebrewer, oggi birraio, che merita menzione è Valter Loverier del birrificio LoverBeer. Vincitore del concorso Birraio dell’Anno 2010, Valter è stato uno dei primi a battere la strada di una produzione dove tecniche birrarie ed enologiche camminano di pari passo. I suoi studi sulla BeerBera, birra a fermentazione spontanea aromatizzata con uva Barbera, risalgono ai primi anni del nuovo millennio. Con l’apertura nel 2008 del birrificio le sue birre sono diventate un punto di riferimento per chi vuole cimentarsi in questa “tipologia”, vedi ad esempio la D’uvaBeer, realizzata con aggiunta di mosto d’uva Freisa in fermentazione. Che il Piemonte sia una delle regioni vanto della nostra enologia e dunque Musa ispiratrice in questa direzione lo dimostrano anche altre due etichette, realizzate dal Birrificio Montegioco in provincia di Alessandria: la Tibir, prodotta con aggiunta del 20% di Uve di Timorasso, e la Open Mind con mosto di Barbera, realizzata in esclusiva per Open.
Anche la Toscana, visto il retaggio vinicolo, non poteva essere da meno. Del 2009 è il progetto che ha unito il birrificio laziale Birra del Borgo (oggi proprietà del colosso AbInbev) alla Tenuta di Bibbiano di Castellina in Chianti, cantina nel cuore del Chianti Classico, da cui ha preso vita L’Equilibrista, la prima birra ottenuta con aggiunta di mosto di Sangiovese. Come se il legame vinicolo non fosse abbastanza evidente il birraio Leonardo di Vincenzo ha fatto propria una rifermentazione in bottiglia tipica degli spumanti metodo classico: sosta in cantina di circa un anno seguita da sboccatura, come insegnano le migliori Maison francesi dello Champagne. Il risultato è un prodotto affascinante, che riunisce i profumi floreali e la vena acidula del Sangiovese alla dolcezza dei malti e alla piacevole beva della birra.
Altra birra che merita menzione è la Jadis di Toccalmatto. Il birrificio di Fidenza, capitanato da Bruno Carilli e dal bravo birraio Alessio Gatti, ha da circa un anno aggiunto alla gamma questa particolare birra, una double blanche aromatizzata con il mosto della locale uva Fontana. Una birra ricca di note fruttate, ribes e mirtillo, complessa e dissetante, che ben si adatta a sposare un salume nobile come il locale Culatello