Italian Grape Ale: evoluzione di uno stile

Quando nel 2014 ho redatto lo stile Italian Grape Ale (IGA), poi pubblicato l’anno successivo dal BJCP, buttai giù il testo avendo assaggiato 8-10 birre al mosto d’uva. Più o meno quelle disponibili sul mercato al tempo. Ma non mi interessava molto questo aspetto. Il mio obiettivo era far entrare questo stile nelle linee guida BJCP, le più riconosciute a livello mondiale. Sapevo che sarebbe stato un grande passo avanti per il movimento italiano, un modo per aumentare l’interesse verso questo stile sia nei confini nazionali che all’estero.

A distanza di 5 anni avevo voglia di capire quanto fosse maturato e cresciuto il fenomeno IGA e soprattutto verificare se le birre prodotte oggi fossero ancora rappresentate nel testo dello stile del 2014. Inoltre, fatto che mi ha spinto in questa direzione, di recente ero venuto a sapere dal presidente del BJCP Gordon Strong che quest’anno probabilmente ci sarebbe stata una revisione delle linee guida agli stili. Decido quindi di avviare un censimento delle IGA italiane. Attraverso microbirrifici.org di Davide Bertinotti (che ringrazio di cuore per il supporto) è stata mandata una email a tutti i birrifici italiani che producono almeno una IGA chiedendo loro di 1) compilare un modulo sul quale riportare le caratteristiche delle IGA prodotte (alcol, colore, amaro, materie prime usate, anno di produzione ecc); 2) inviarci un campione di birra da degustare durante un panel test che si sarebbe tenuto da lì ad un paio di mesi. Rispondono all’appello 41 birrifici e vengono censite 66 birre, 53 delle quali vengono spedite per il panel test. Di seguito un po’ di riflessioni in breve.

La fermentazione
La stragrande maggioranza delle birre è prodotta con lieviti ad alta fermentazione in prevalenza ceppi neutri e belgi. Segnale che i birrai scelgono in prevalenza di mantenere un profilo neutro fermentativo per “far parlare” il vitigno oppure scelgono di dare complemento allo stesso con un bust di esteri fermentativi derivanti ai ceppi belgi. Nota interessante e che non mi sorprende, i ceppi neutri sono utilizzati maggiormente quando si utilizzano vitigni almeno mediamente aromatici per lasciare inalterato il bouquet di aromi. Con gli assaggi abbiamo capito subito che un nodo da sciogliere era la questione delle cosiddette wild IGA. Difatti un piccolo insieme di IGA è prodotto utilizzando anche brettanomiceti e/o batteri lattici. La domanda che ci siamo posti è stata: le wild IGA sono espressione dello stile IGA, sono un nuovo stile a parte o esistono già catalogate come stile? Dare una risposta non è stato semplice e abbiamo cercato di ragionare nella maniera più razionale possibile. Analizzando le caratteristiche organolettiche delle birre presentate come wild IGA, abbiamo visto come queste fossero già rappresentate pienamente da stili del BJCP quali “fruit lambic” e “american wild”. Da considerare inoltre il fatto che le wild IGA sono veramente poche e anche per questo, al momento, non hanno il peso specifico per reclamare uno stile a sé. Quindi forti livelli di acidità e forti sentori wild non sono da intendersi nei confini dello stile. Una leggera acidità derivante dall’uva e una altrettanto leggera sfumatura wild sono invece consentiti come espressione del vitigno. Insomma, benvenute le note dure o selvagge, ma da dosare in punta di fioretto.

La luppolatura: amaro e aromaticità
Sull’amaro i produttori di IGA sono molto concordi. Il grosso delle birre è difatti compreso tra i 15 e i 30 IBU e all’assaggio il dato è confermato. L’amaro è sempre gentile e mai sopra le righe. Fa da contrappunto alla struttura maltata e non è mai protagonista. Neanche questo aspetto mi sorprende. L’IGA è una birra con una immancabile leggera acidità ed inoltre è spesso molto secca (molto attenuata) e anche medi livelli di amaro si farebbero percepire troppo. Da considerare inoltre che gli IBU nelle birre come le IGA, che passano un po’ di mesi in cantina prima di essere immesse in commercio, vedono diminuire gli IBU reali. Facile quindi che gli IBU reali siano alle fine tra i 10 e i 20. Nemmeno l’aromaticità della luppolatura è mai percepita a medio-alti livelli. Vengono utilizzati in gran parte luppoli tedeschi/cechi o inglesi mentre gli americani sono quasi del tutto assenti. Gittate basse in genere ma non mancano buoni esemplari con qualche nota erbacea/pepata/agrumata data dal luppolo. In sostanza: luppolo in aroma poco pervenuto ma se c’è va saputo utilizzare.

I malti
Su questo aspetto c’è una buona omogeneità tra le 66 birre censite. 46 birre presentano il semplice pils come malto base, mentre 7 hanno il pale. Le aggiunte di malti speciali sono frequenti ma è pur vero che si limitano nella maggior parte dei casi a malti chiari usati in percentuali basse. Alcuni usano anche malti scuri che colorano la birra e che danno in alcuni casi note tostate. Le birre scure presentate erano veramente poche (appena 4 birre con colorazione sul mogano). Ne ricordo una molto buona come birra in generale ma il vitigno era scomparso dietro i malti scuri. Quindi malti scuri ammessi o no? Sì, a patto che l’espressione del vitigno venga preservata. Un eccellente esempio di buona gestione dei malti scuri in una IGA è rappresentato dalla BB10 del birrificio Barley in cui le tostature sembrano quasi esaltare la possenza del Cannonau.

L’uso dell’uva
Viene ancora largamente preferito l’utilizzo di mosto fresco rispetto al mosto cotto (sapa). C’è chi usa il mosto in fermentazione primaria addirittura come innesco, chi in secondaria a fermentazione terminata. C’è chi lo inserisce in botte, anche se è un approccio che non è così diffuso. Da segnalare l’evoluzione del concetto di sapa da parte del birrificio Barley che in alcune sue birre utilizza un processo di concentrazione a freddo del mosto in modo tale da preservarne la qualità organolettica. Preponderante l’uso di vitigni a bacca bianca rispetto a quelli a bacca rossa.

Lo stile in sintesi
Non potendo riportare il testo integrale dello stile ma volendo dare un’idea complessiva e sintetica potremmo dire che la IGA: è una birra compresa tra i 5 e i 10 gradi alcolici, che va dal giallo paglierino al dorato nella maggior parte dei casi o assume sfumature rossastre se si usano uve a bacca rossa. Al naso come in bocca l’uva deve sentirsi ma non deve dominare la scena. È leggermente acida e abbastanza secca e con un amaro mai sopra le righe. La luppolatura, se presente, si esprime con note erbacee e vagamente agrumate, ma mai da sovrastare il bouquet aromatico della birra. Buona scorrevolezza in bocca anche a gradi alcolici elevati con frizzantezza relativamente sostenuta.

Dal 2006 ad oggi
In base ai soli dati del censimento il primo birrificio a produrre una birra con mosto d’uva è stato il birrificio Barley nel 2006 seguito da Montegioco l’anno successivo. Una decina le birre prodotte fino al 2012 ma l’anno del cambiamento è il 2015 quando lo stile viene pubblicato e fa da volano per questo stile (si veda grafico sottostante). C’è da dire che le IGA in realtà prodotte sono più delle 66 degustate poiché al censimento non ha purtroppo risposto il 100% dei produttori. Un po’ empiricamente reputo che le IGA siano in realtà oltre 100 ad oggi. È molto interessante verificare come anche all’estero le IGA stanno iniziando a diffondersi. Un paio di anni fa sono arrivati a podio nella categoria IGA del Brussels Beer Challenge birrifici americani del calibro di Firestone Walker (oro), mentre nell’ultima edizione un birrificio cinese ha vinto il certificato di eccellenza nella categoria. Ormai questo stile di sta diffondendo in Paesi come Cile, USA, Francia e persino in Tasmania! Per la prima volta non siamo noi a produrre stili di altri Paesi, ma accade il contrario e questo è uno degli aspetti che più mi affascina di tutta questa storia.

Come è cambiata la IGA negli anni
In realtà non tantissimo dal 2014/2015 ad oggi. Pur essendo lo stile abbastanza ampio, accettando in alcuni ambiti ampie differenze (colore, grado alcolico), è sicuramente con questo aggiornamento più cesellato e ristretto su altri ambiti: acidità, amaro, uso del luppolo. Ciò che invece è bello poter constatare è come tecniche birrarie e vitivinicole si siano fuse assieme per la prima volta. C’è maggiore consapevolezza da parte dei birrai nel tenere in considerazione la qualità di una materia prima come l’uva, e di quanto questa possa variare di anno in anno. Maggiore consapevolezza in tanti viticoltori che guardano con grande entusiasmo e con meno negligenza, rispetto al passato, al mondo brassicolo. Scoprono che l’uva può avere un’altra espressione, che non è limitante o sostitutiva del vino ma un’alternativa nobile a tutti gli effetti.